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La natura in Leopardi, un pessimismo forzato

La natura in Leopardi, un pessimismo forzatoLa natura in Leopardi e in quella che si configura come una sua vera e propria filosofia è senz’altro centrale e assolutamente non trascurabile. Fin dai primissimi scritti appare evidente come, il poeta recanatese, voglia dare una nozione organica di quello in cui «anche l’uomo è implicato e alle cui leggi ostili e indifferenti rimane sottoposto, ma dal cui senso vitale si è estraniato» (C. Galimberti). In questo primo periodosi sofferma sul concetto generale di natura e su quella dialettica per la quale questa è contrapposta alla ragione. Assume le sembianze non strettamente definite di quella madre tanto amorevole che ha concesso la possibilità all’uomo, abitante inconsapevole delle sue dinamiche, quella capacità di evasione che non ha sede nella ragione, ma nell’immaginazione Proprio in nome di ciò l’antiquitas viene esaltata come un regno ideale, dove la ratio non ha ancora contaminato l’animo umano, proprio a causa di quest’ultima infatti la natura è inesorabilmente legata al piano della perdizione della nozione di infinito e di felicità. Al passato così idealizzato si unisce un secondo tema tanto caro a Leopardi: la ricordanza, ovvero quella condizione di fanciullezza interiore dove la speranza è di gran lunga superiore alla memoria del doloroso vissuto del passato.

 

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Accade però che a seguito di una serie di delusioni sul piano personale, riconducibili agli anni della sua vita che vanno dal 1822 al 1825 circa, tutte le elaborazioni sul piano filosofico che aveva sviluppato fino a quel momento vedono un mutamento, forse per tradizione troppo semplicemente fatto coincidere con una nuova e più profonda concezione pessimistica, vendendo la sua massima concretizzazione sul piano letterario nelle Operette morali, dove il dolore viene questa volta proiettato in campo cosmico e non più racchiuso e destinato al mondo contemporaneo. Celebre nel Dialogo della Natura e di un Islandese è la personificazione della prima con una donna dal volto coperto, i cui tratti si delineano tra la sfera del sublime e il campo del terrore, una matrigna la cui malvagità è giustificata dalla necessità e dall’inconsapevolezza delle proprie azioni, ma è altrettanto uno snodo fondamentale per tutto il panorama letterario. A quell’uomo posto al centro dell’universo nel secolo dei lumi, capace di penetrare la realtà attraverso nuovi strumenti scientifici e che destituisce quasi il ruolo predefinito e intrinseco della natura, è attribuita qui una una fragilità unica, che lo porta a riscoprire quella che è stata definita da D’Avenia «chiamata all’eroismo». Proprio l’essere benefico che precedentemente aveva fornito all’uomo la capacità di illudersi per sfuggire all’inevitabile e doloroso destino mortale, ora è «un’empia madre che opprime e distrugge i suoi figli» (G. Ficara). Ma a saper ben leggere tra le righe, il ruolo di una tale “genetrix” – come la definì Lucrezio – è di far ritrovare all’umanità intera quei sentimenti ormai troppo sopiti nell’animo. Non a caso nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, il poeta afferma come la funzione dei parenti sia di «consolare dall’uman stato», ma ancora una volta viene rievocata la Luna, quel nucleo che rimane stabile ma che sempre ciclicamente muta. Lei, che offre solo una delle sue due facce e lascia spazio di immaginare quanto possa avvenire sull’altra, rispondendo perfettamente a quella poetica del vago e dell’indefinito, perno portante di tutta la produzione letteraria leopardiana. Lei, che grazie ai suoi moti esatti suscita un senso di nostalgia per la completezza e l’interezza e Lei, che con la sua inconsapevolezza sembra ignorare il destino assegnatole e assegnato agli altri. E se questa Luna fosse la rappresentazione della natura come ce la vuole far intendere Leopardi? Certo conscio dei precedenti modelli letterari che avevano coinvolto il satellite terrestre in prima persona, non rappresenta qui il senno della ragione umana, come per Astolfo , anzi si carica di un nuovo valore simbolico ripercorrendo le orme plotiniane, per il quale le facce lunari erano la rappresentazione dell’animo umano e del suo duplice aspetto: quello strettamente legato all’intelletto, illuminato dalla luce delle idee e la parte più oscura, meno pura, rivolta verso il mondo della materia.

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Dietro al velato pessimismo leopardiano può addirittura nascondersi la chiave interpretativa del postulato kantiano sulla libertà, il destino è qui visto come la somma della natura come entità incondizionata necessaria e della storia umana, quel succedersi di eventi entro i quali si risolve liberamente l’azione. Entrambe le parti si intrecciano tra loro, se la prima ricorda all’uomo quanto possa essere segnato dalla sua finitudine intrinseca, pungola però la reazione della seconda, desiderosa di tendere verso l’infinito. Riaffiora così anche la visione dell’uomo-Ulisse naufrago nel dolce mare della conoscenza, che sacrificherà la sua vita per aver fatto prevalere il suo ruolo all’interno della storia trascurando quello nella natura, credendo di schiacciarla e questo per Leopardi sarà il «vero ritorno alle origini dell’uomo […], il ritorno al senso originario della comunità umana, della social catena, non catena che lega e costringe ma che salda chi fraternamente collabora» (C. Luperini). Ora sta a noi interpretare il significato profondo del più grande testamento letterario lasciatoci da Leopardi (La Ginestra) e nel conferire a quell’“inimico” al verso 126 un nuovo significato, attribuendo alla particella –in, unita all’accusativo latino amicus, un’accezione positiva e vantaggiosa, trascendendo dal pessimismo assoluto e riscoprendo il valore fondamentale del significato dell’essere umano e il nuovo profondo senso della natura in Leopardi come fattore anti-detonante in società polveriere a rischio di esplosione.


Per la prima foto, copyright: Paul Jarvis.

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