La movida, un’indagine su libertà e soprusi
Movida: «Denominazione per lo più scherz. della vita serale e notturna di una città». Così recita il dizionario online di Treccani.it. E di movida si occupa Resede Ferioli, nel suo Abbassate il volume. Indagine su libertà e soprusi della movida (Le Lucerne editore), a partire dal suo trasferimento nel paese di Vallesina, dove l’autrice pensava di riuscirsi a godere la sua pensione. Ma così non è stato. La movida notturna prende il sopravvento, disturba la quiete pubblica, scrive l’autrice, e ad autorizzarla è direttamente il Sindaco.
Nasce dunque un tentativo di «smascherare le illegalità da spiaggia su cui le istituzioni chiudono gli occhi, persino in tempo di Covid».
Qui di seguito riportiamo il primo capitolo del libro.
1. L’ESILIO
Quando finalmente il cielo cominciò schiarire e pian piano il sole uscì dalle brume che incorniciavano l’orizzonte sul mare, aspettai l’arrivo della luce calda sul mio cuscino e la serenità che finalmente poteva placare un animo maltrattato dalla lunga notte insonne.
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Da settimane non dormivo e capii di essere ammalata: di stanchezza, ma soprattutto di rabbia, una rabbia feroce che annullava ogni capacità di distinguere il bene dal male.
La situazione non era più sostenibile per un’ottantaduenne già operata al cuore e senza altra abitazione disponibile e chiesi asilo temporaneo in casa di mia figlia in centro città.
Cercai fra i foglietti disordinati che custodivo in una scatola: ben sapendo che nel comune di Vallesina non esistevano taxi ufficiali (e regolari), estrassi due nominativi di autisti che offrivano la loro disponibilità, a dire il vero per ricondurre a casa gli ubriachi reduci dalla movida di spiaggia.
Il primo non mi ispirò alcuna fiducia: proponeva come insegna un caimano e un bulldog ringhiante con le zanne in evidenza.
Il secondo si chiamava solo Marco e non faceva riferimenti particolari, quindi lo scelsi senza indecisioni e lo chiamai per farmi portare in città.
Marco arrivò con una Fiat Multipla che sembrava recuperata dall’immondezzaio, sporca dentro e fuori, senza sospensioni.
Mi sedetti davanti perché il sedile posteriore era pieno di cartacce. Fra di noi c’erano alcuni sacchetti di biscotti chiusi con mollette da bucato.
Non mi preoccupava la velocità perché era chiaro che l’auto mancava molto di fiato e non poteva quindi andare troppo forte.
Mi preoccupava invece la continua scelta del biscotto giusto da mangiare, scelta che veniva portata a termine con l’apertura della molletta e la lunga ispezione all’interno dell’uno o dell’altro sacchetto, naturalmente senza alcuna interruzione o rallentamento nella guida, anche in fase di sorpasso di uno o più autotreni.
Ma soprattutto, mi preoccupava il continuo chiamare e rispondere al telefono per fare pettegolezzi su Benigni, sui comunisti e sui clienti, nel frattempo scambiando foto e messaggini, che venivano tranquillamente visionati e letti nonostante le difficoltà del traffico.
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Durante tutto il tragitto rivissi mentalmente il frontale subito in gioventù ed ero sicura che stavolta non ne sarei uscita viva, avendo appena realizzato che stavo sul sedile che le assicurazioni definiscono il posto del morto.
All’arrivo, se le mie vecchie ossa me lo avessero permesso, avrei baciato il terreno su cui finalmente avrei posato i piedi.
Come ero finita nella situazione di dover chiedere asilo lontano da casa mia?
Per la prima foto, copyright: Cassie Gallegos su Unsplash.
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