La “Morte di Danton”, tra sangue, politica e sogno
Ha debuttato al teatro Carignano di Torino lo scorso febbraio, e ora è in scena al Teatro Strehler di Milano fino al 13 marzo, l’attesissimo Morte di Danton, di cui Mario Martone firma regia e scene (poi proseguirà al nuovo LAC di Lugano, il 15 e 16 marzo). Uno dei testi più significativi dell’Ottocento torna con la traduzione di Anita Raja ed è la casa editrice Einaudi a dargli le stampe.
Georg Büchner ha solo 21 anni quando scrive, in poco più di un mese, questa vivida riflessione sugli anni che seguono la Rivoluzione Francese. È il 1835 e sono tempi difficili per il drammaturgo tedesco, ricercato per la sua attività politica libertaria. Di lì a poco fuggirà a Strasburgo e troverà infine la morte a Zurigo, ancora giovanissimo.
Grande, potente, simbolico, Morte di Danton offre un ritratto crepuscolare dei giorni seguenti al processo rivoluzionario del 1789. La penna di Büchner tratteggia senza sconti il clima di repressione politica voluto dal Comitato di Salute Pubblica, sotto la guida Robespierre, l’Incorruttibile. L’obiettivo sono tutti i nemici della Rivoluzione, compresi i vecchi compagni di lotta antimonarchica, come Danton. Siamo in pieno Terrore («L’arma della Repubblica è il terrore, la forza della Repubblica è la virtù», sentenzia Robespierre), l’attività della ghigliottina è più che mai concitata, le esecuzioni si succedono quotidianamente e non risparmiano nessuno. «Il fiume della rivoluzione vomita i suoi cadaveri». La pièce è un racconto impietoso di come ogni intuizione, ogni rinnovamento precipiti nel sangue. Il popolo, d’altro canto, è allo sbando, impoverito e corrotto. Condurrà volentieri Danton al patibolo, ma pochi mesi dopo farà altrettanto con Robespierre. In fondo, «il termometro della ghigliottina non deve essere abbassato».
Quello che era stato il grande sogno di rinnovamento, precursore di una palingenesi politica, si trasforma in un incubo paranoide. La drammaturgia di Georg Büchner, incredibilmente affine al montaggio e alle modalità narrative novecentesche, intercetta tutti questi temi e li rimescola in un testo cupo, ma sempre aperto a folgorazioni poetiche.
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L’orizzonte semantico di Morte di Danton si muove fra diverse polarità: vita e morte, corpo e appassimento. La virtù non si dà senza mestizia e afflizione. Il corpo è politico, da un lato, e dall’altro è carne scossa dai vizi, minacciata dalla sifilide o tronco decapitato.
Il cosiddetto secolo dei Lumi fu anche e soprattutto il secolo del sublime (Edmund Burke), dello sgomento e del piacere dell’orrorifico. Qui sono presenti tutti i temi che testimoniano l’estrema duttilità del copione di Büchner, la sua sensibilità alle influenze filosofiche dell’epoca poco precedente. Spiccano la dimostrazione dell’inesistenza di Dio fatta da Thomas Payne e il confronto filosofico con la natura antagonista, specchio dello sgomento della polis francese sconvolta da leggi troppo severe, nemiche. È un implicito richiamo alle riflessioni dei filosofi dopo il terremoto di Lisbona del 1755 (che influenzò anche il pensiero di Leopardi).
Mario Martone approda all’agonia della Rivoluzione Francese, dopo un lungo lavoro nell’Ottocento (Le operette morali di Leopardi, a teatro; al cinema, sempre Leopardi con il Giovane favoloso, dopo il Risorgimento italiano di Noi credevamo). Questa impegnativa produzione porta in scena 30 attori che costruiscono uno spettacolo corale, dominato idealmente dai due antagonisti: Robespierre (Pierpaolo Pierobon) e Danton (Giuseppe Battiston). In consonanza col proprio personaggio, Battiston appare molto umano e allo stesso tempo affaticato. Su tutti si impone l’interpretazione di Paolo Pierobon, amatissimo da Luca Ronconi, che offre una prova scattante, mossa da raffinati pesi interni, mai semplicemente muscolare. Iaia Forte si accomoda su un corpo giunonico per recitare il suicidio della moglie di Danton. Per contrasto, Lucile, la moglie di un altro condannato Camille (incisivo, Denis Fasolo), è una fulgida e lirica Irene Petris – che compare nel finale, in un’ideale crocifissione bianca di buon respiro attoriale. Altri nomi di bravi attori scelti da Martone sono quelli di: Massimiliano Speziani (sempre convincente, anche nei suoi spettacoli più sperimentali), Pietro Faiella, Roberto Zibetti, Paolo Graziosi, Alfonso Santagata.
La trasformazione della scena è scandita dal ritmo di pesanti sipari rosso sangue, che si alzano e abbassano creando gli spazi di questo gioco al massacro. Ma il dipinto corale di Mario Martone, più che convincere per forza scenica, mette bene in forma la chirurgica capacità di Büchner di dissezionare un corpo politico ormai esangue. Impossibile non accorgersi di come Morte di Danton parli a noi oggi e di come ci consegni un vocabolario tragico e politico insieme: due buone lenti con cui leggere il nostro presente, la storia delle nostre democrazie.
Morte di Danton
di Georg Büchner
traduzione Anita Raja
regia e scene Mario Martone
con (in ordine alfabetico) Giuseppe Battiston, Fausto Cabra, Giovanni Calcagno, Michelangelo Dalisi, Roberto De Francesco, Francesco Di Leva, Pietro Faiella, Denis Fasolo, Gianluigi Fogacci, Iaia Forte, Paolo Graziosi, Ernesto Mahieux, Carmine Paternoster, Irene Petris, Paolo Pierobon, Mario Pirrello, Alfonso Santagata, Massimiliano Speziani, Luciana Zazzera, Roberto Zibetti e con Matteo Baiardi, Vittorio Camarota, Christian Di Filippo, Claudia Gambino, Giusy Emanuela Iannone, Camilla Nigro, Gloria Restuccia, Marcello Spinetta, Beatrice Secchione
costumi Ursula Patzak
luci Pasquale Mari
suono Hubert Westkemper registi
collaboratori Alfonso Santagata e Paola Rota
scenografo collaboratore Gianni Murrue Bruno De Franceschi
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
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