La memoria, la sua forza e i suoi limiti. “Amnesia” di Douglas Anthony Cooper
«Cos'è un ricordo? Qualcosa che hai o qualcosa che hai perso per sempre?» riecheggia tra le pagine di “Amnesia” di Douglas Anthony Cooper, tradotto da Sara Inga, la domanda di alleniana memoria: troveremo la risposta? Pubblicato in Italia da D editore leggiamo nella postfazione a cura di Valerio Valentini che l’intento del libro «di dannazione e perdizione» è quello di ripercorrere «la struttura della mente umana – e della memoria – come fosse il progetto di un edificio, la mappa di una grande città». Per la diversità delle storie narrate e intrecciate tra loro risulterebbe inutile, in questa sede, limitarsi a sintetizzare tutto il contenuto del libro, cerchiamo piuttosto di andare alle radici del problema memoria leggendo man mano le pagine, fin nei minimi loro dettagli.
«La mente è come una città. Se riesci a ricordartelo, puoi ricordare qualunque cosa. Freud […] dimenticò presto anche questo. Ha paragonato la mente alla Città eterna in un breve passaggio per poi liquidare l’analogia come assurda. Non posso dirle quanto hanno sofferto i miei amici a causa di quell’uomo.»
È questa una delle prime affermazioni che Izzy, uno dei protagonisti del racconto, dice al cospetto di un uomo qualunque che si sarebbe sposato di lì a poco, ma che è destinato a rimanere stravolto da quanto il primo dirà. Un affascinante corollario a quanto detto è senza ombra di dubbio l’asserzione di Milan Kundera, secondo il quale sempre Freud avrebbe dimenticato l’attività creatrice intrinseca nei sogni: mente, immaginazione e sogno, cosa tende ad accomunare questi tre concetti? La memoria.
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Non è un caso allora che più avanti nel libro si leggerà la storia di Simonide e della nascita della tecnica dei loci: a questo va proprio il merito di aver abbinato per primo i ricordi a dei luoghi mentali, vede cioè la mente come un labirinto fatto di stanze, all’interno del quale possiamo navigare. Ben capiamo l’importanza della memoria presso gli antichi se pensiamo ancora una volta a Mnemosine, la quale, secondo Diodoro Siculo, non solo scopre il potere della memoria, ma è anche responsabile dell’attribuzione dei nomi a molti oggetti e concetti utilizzati dagli uomini affinché possano comunicare vicendevolmente. A questo punto sembra che Douglas risponda alla domanda che ci siamo posti all’inizio asserendo che il ricordo è qualcosa che possediamo. Ma cosa accade quando rubiamo i ricordi o la memoria?
«[…] Facciamo qualcosa, crediamo di controllare e possedere ciò che, in effetti, abbiamo semplicemente rubato […] la verità è che sappiamo veramente poco.»
Racconta sempre Izzy, stavolta riferendosi a uno dei suoi fratelli. Uno dei nuclei attorno al quale si sviluppa parte della storia è proprio l’analisi delle dinamiche familiari di quest’ultimo: una famiglia apparentemente felice, la descrizione di qualche cotta adolescenziale e la morte di un fratello che stravolgerà un delicato equilibrio, facendo emergere aspetti oscuri del lato umano, dell’incapacità di comunicare perfino tra membri appartenenti alla stessa famiglia. Ma come è possibile questo, dopo tanti anni di convivenza e condivisione che hanno cementato una certa massa di memoria all’interno della mente dei componenti familiari? Forse perché molto spesso ci si illude che dimenticare possa rendere liberi, quando in realtà tutto ciò che abbiamo rimosso continua a scavare silentemente dentro di noi distruggendoci e logorandoci. La memoria allora è anche ciò che abbiamo perduto?
« […] il professor Abraham Gold, avrebbe obiettato che la parola “carino” fosse la debolezza fatta linguaggio, che non esprimesse niente di concreto. […] mi trovai n disaccordo. “Carino” è una delle parole più potenti del nostro linguaggio. Ha vari livelli di significato. […] è la barriera tra la società e l’eroismo. Se accetti le regole e diventi carino sei perduto.»
Così nel linguaggio, così nella mente, ciò che perde i propri confini seduce ed è letale. Il ricordo più pericoloso è in altercazione continua tra possesso e perdita, tra accettazione e rimozione: lì si creano i mostri. Siamo riusciti con una sola parola non solo a trascurare la compiutezza, e ad appiattire la complessità umana etichettandola a “debolezza”, altrettanto ingente è infatti il danno di voler azzerare tutte le sfumature intermedie, la scala cromatica del linguaggio e del pensiero, i ricordi vaghi, le parole incerte. E così la memoria ha un suo grande limite, che poi è la sua più grande forza: quella di rivivere e essere interpretata dagli esseri umani.
«Adoriamo il potenziale dei nostri macchinari perché venerare nell’uomo quello stesso potenziale è considerato volgare.»
Quante speranze riposte nelle macchine affinché raggiungano e superino il potenziale umano, affinché si facciano interpreti esatte di un mondo sempre più volto alla complessità. Però poi quanto è grande la delusione che proviamo quando ci accorgiamo che queste non possono sostituire l’uomo? Una cosa è certa ed è ben espressa anche da Douglas, è la mera presenza di un altro essere umano a evitare che la psiche vada in frantumi, per impedire che ci spacchiamo, che creiamo dei surrogati di noi stessi o che ci vogliamo proiettare a tutti i costi in un qualcosa di artificiale ed esterno- come lo è la macchina. Per generare Memoria occorre sentire, provare sensazioni, altrimenti si trasforma solamente in uno sterile accumularsi di dati in cui vi è ben poco di umano. Perché alla fine la domanda iniziale non gioca tanto sull’avere o sull’aver perso, quanto sull’aver provato o meno: cosa è quindi, qualcosa che abbiamo provato o qualcosa che proviamo ogni volta che riaffiora?
«Il tempo non procede in un’unica direzione. Va avanti, lentamente, ma anche indietro, certe volte con dei grandi salti. Lo spazio richiama i ricordi. Richiama le voci. Le riesci a sentire, le voci intorno a lui.»
Celebre la scena di Alla ricerca del tempo perduto quando, a partire da alcuni morsi a una madeleine la memoria inizia a giocare nello spazio-tempo, così noi ogni giorno troviamo nelle cose o nelle persone lo stesso trampolino dal quale potersi tuffare e nuotare nelle stanze della mente. Le domande continuano però a non trovare risposte, forse perché in fondo non ce n’è una precisa, forse perché per qualcuno ricordare è avere e provare per altri solo far tornare alla mente qualcosa di perduto e provato.
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In fondo questo libro è così, come nella memoria ciascuno può pescare ciò che vuole, proviamo a essere noi lettori, più attivamente che mai, artefici della nostra memoria. Non rifugiamoci nell’amnesia, esploriamo le diverse gradazioni di colore in questo «capolavoro d’intenti» (Gian Paolo Serino).
Sia ben chiara una cosa, la scelta di non inserire troppi dettagli sulla trama e sull’ambientazione – la città di Toronto –, trascurando personaggi altresì cruciali come Katie, non vuole essere una negligenza ma evidenza del fatto che si tratta di un libro senza soluzione scritta, un libro che vuole rappresentare la realtà, per lettori «che cercano una via di uscita come criceti che girano ognuno sulla propria ruota», come ha ben detto Gian Paolo Serino.
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