La “Mandragola” di Niccolò Machiavelli, l’altra faccia del “Principe”
La Mandragola, conosciuta anche con il titolo di Comedia di Callimaco et di Lucrezia, è una delle opere più rappresentative del teatro italiano del Rinascimento. L’autore è Niccolò Machiavelli che, da serio e acuto scrittore di trattati politici, veste in quest’ occasione i panni di lascivo e irriverente commediografo. Come per altre opere, anche questa è di incerta datazione: secondo Ridolfi la Mandragola fu scritta nel 1518, in occasione delle nozze tra Lorenzo de’ Medici e Madelaine de la Tour d’Auvergne; mentre secondo Stoppelli la stesura interessò gli anni 1513-1514, stando ad alcune lettere che Machiavelli inviò al compagno Francesco Vettori.
La Mandragola è una commedia di forte sapore boccaccesco. Il giovane Callimaco è perdutamente innamorato della giovane Lucrezia, moglie del ricco e sciocco Nicia, la cui dabbenaggine ricorda, in più di un’occasione, quella di Calandrino nel Decameron.
«LIGURIO
Io non credo che sia nel mondo el più sciocco uomo di costui; e quanto la Fortuna lo ha favorito! Lui ricco, lui bella donna, savia, costumata e atta al governare un regno. E parmi che rare volte si verifichi quel proverbio ne’ matrimoni, che dice: «Dio fa gli uomini, e’ s’appaiono»; perché spesso si vede uno uomo ben qualificato sortire una bestia, e, per avverso, una prudente donna avere un pazzo.»
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Al seguito di Nicia c’è Ligurio, uno scaltro parassita, nonché amico e confidente di Callimaco. Questi, con l’aiuto del poco edificante Fra’ Timoteo, farà sì che il giovane innamorato soddisfi pienamente il proprio ardente desiderio.
«LUCREZIA
Poiché l’astuzia tua, la sciocchezza del mio marito, la semplicità di mia madre e la tristizia del mio confessoro mi hanno condutto a fare quello che mai per me medesima arei fatto, io voglio iudicare che venga da una celeste disposizione, che abbi voluto così, e non sono sufficiente a recusare quello che ’l Cielo vuole che io accetti. Però, io ti prendo per signore, patrone, guida: tu mio padre, tu mio defensore, e tu voglio che sia ogni mio bene; e quel che ’l mio marito ha voluto per una sera, voglio ch’egli abbia sempre.»
A una prima lettura questa commedia mette in scena una situazione che scatena una facile ilarità ma, durante il veloce susseguirsi delle scene e degli atti, un acuto lettore, o spettatore, non può non cogliere, soprattutto in alcuni momenti, la spietata ed impietosa critica che Machiavelli muove alla città di Firenze. Una denuncia che colpisce sia l’oziosa e vuota classe degli ottimati, rappresentata da Nicia, sia il clero sempre più corrotto ed immorale, come sottolineato dalla figura di Fra’ Timoteo.
«CALLIMACO
[…]. Ma veggo io Ligurio? Egli è desso. Egli ha seco uno che pare scrignuto, zoppo: e’ fia certo el frate travestito. O frati! Conoscine uno, e conoscigli tutti! […].»
Andando però a fondo nella lettura, la Mandragola può essere interpretata anche come una parodia del trattato politico Il Principe, capolavoro che Niccolò Machiavelli partorì durante il suo esilio da Firenze, dopo il ritorno della famiglia dei Medici.
Nel Principe l’autore descrive soprattutto quelle che devono essere le peculiarità dell’ottimo capo di Stato, il cui principale compito è quello di perseguire il bene comune. Nella commedia queste caratteristiche sono presenti nei personaggi principali, escluso ovviamente Nicia, ma in maniera degradata e rovesciata: ognuno è un principe al contrario perché interessato al soddisfacimento del proprio bene personale.
«Dovete adunque sapere come sono dua generazione di combattere, l’uno con le legge, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie; ma, perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo: pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente dalli antiqui scrittori, li quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi; il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo omo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura, e l’una sanza l’altra non è durabile. Sendo adunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione, perché el lione non si defende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi.» (Il Principe)
Il Principe deve essere ardimentoso come un leone ed astuto come una volpe. Callimaco ha la fierezza del leone, capace di affrontare coraggiosamente il pericolo pur di raggiungere il proprio obiettivo.
«CALLIMACO
Io conosco che tu di’ el vero. Ma come ho a fare? Che partito ho a pigliare? Dove mi ho a volgere? A me bisogna tentare qualche cosa, sia grande, sia periculosa, sia dannosa, sia infame.»
Ligurio e Fra’ Timoteo, d’altro canto, rappresentano l’astuzia della volpe.
Sia il parassita che il confessore riescono nei loro intenti e non si lasciano scoraggiare nemmeno dai repentini mutamenti della sorte, anzi, anche in quelle delicate occasioni riescono ad avere la meglio perché fanno sì che ogni situazione, anche quella meno favorevole, vada a loro vantaggio.
«FRATE
Io non so chi si abbi giuntato l’uno l’altro. Questo tristo di Ligurio ne venne a me con quella prima novella, per tentarmi, acciò, se io li consentivo quella, m’inducessi più facilmente a questa; se io non gliene consentivo, non mi arebbe detta questa, per non palesare e disegni loro sanza utile, e di quella che era falsa non si curavano. Egli è vero che io ci sono suto giuntato; nondimeno, questo giunto è con mio utile.»
Così è anche Lucrezia che, nelle battute finali, una volta scoperto l’inganno ordito da Callimaco, non si lascia cogliere impreparata dai cambiamenti orditi dalla fortuna. Non a caso, secondo alcuni studiosi, ella è l’immagine del perfetto “savio machiavelliano”.
«E essaminando le azioni e vita loro, non si vede che quelli avessino altro dalla fortuna che la occasione, la quale dette loro materia a potere introdurvi dentro quella forma parse loro; e sanza quella occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano.» (Il Principe)
Il Principe, per Machiavelli, non si lascia cogliere impreparato ma mostra la sua virtù soprattutto quando la fortuna non volge a proprio favore.
In ultimo un buon Principe, pur di mantenere il proprio Stato, deve essere disposto a tutto: anche a commettere azioni discutibili. È doveroso sottolineare che per Machiavelli anche le gesta reputate immorali sono necessarie per conseguire il bene dello Stato. Chissà perché molti, ancora oggi, tendono a fornire errate interpretazioni della massima: “il fine giustifica i mezzi”?
«E hassi ad intendere questo, che un Principe, e massime un Principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose, per le quali gli uomini sono tenuti buoni, essendo spesso necessitato, per mantenere lo Stato, operare contro alla umanità, contro alla carità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbia un animo disposto a volgersi secondo che i venti e le variazioni della fortuna gli comandano; e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato.» (Il Principe)
Fra’ Timoteo, pur di raggiungere il proprio obiettivo, che sarebbe quello di arricchirsi ulteriormente, non si lascia intimorire ma arriva addirittura, con la sua suadente retorica, a storpiare il messaggio biblico e cristiano, ingannando così l’ingenua Lucrezia.
«FRATE
Io voglio tornare a quello, ch’io dicevo prima. Voi avete, quanto alla conscienzia, a pigliare questa generalità, che, dove è un bene certo e un male incerto, non si debbe mai lasciare quel bene per paura di quel male. Qui è un bene certo, che voi ingraviderete, acquisterete una anima a messer Domemedio; el male incerto è che colui che iacerà, dopo la pozione, con voi, si muoia, ma e’ si truova anche di quelli che non muoiono. Ma perché la cosa è dubia, però è bene che messer Nicia non corra quel periculo. Quanto allo atto che sia peccato, questo è una favola, perché la volontà è quella che pecca, non el corpo; e la cagion del peccato è dispiacere al marito, e voi li compiacete; pigliarne piacere, e voi ne avete dispiacere. Oltr’a di questo, el fine si ha a riguardare in tutte le cose: el fine vostro è riempiere una sedia in paradiso, e contentare el marito vostro. Dice la Bibia che le figliuole di Lotto, credendosi essere rimase sole nel mondo, usorono con el padre; e, perché la loro intenzione fu buona, non peccorono.»
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Il fine primo della Mandragola fu certamente quello di muovere al riso gli spettatori; ma, attraverso la risata, Machiavelli volle ironizzare sul malcostume che impediva all’Italia di riscattarsi da un presente di mediocrità e miseria. I personaggi della commedia posseggono quelle ottime qualità che farebbero grande un Principe e, di conseguenza, uno Stato ma, perché vengono adoperate per un proprio tornaconto, quindi in modo egoista, esse si trasformano in lacci pericolosi per l’Italia sempre più divisa e dominata da potenze straniere.
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