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La macchina del caporalato – Il capo Rom

La macchina del caporalato – Il capo RomMarcello è un capo, il leader della sua comunità di rumeni giunti in Lombardia per lavorare alle uve del bresciano. Ha una stazza superiore, due mani enormi, uno sguardo che incute paura e una voce, sì una voce, pacata e dominante.

Lo incontro nel suo accampamento, un campo nomadi non lontano dai tanti piccoli comuni del consorzio Franciacorta. Lui vive stabilmente qui da oltre un decennio. È in regola e fa da tramite tra i proprietari delle vigne della zona e la manodopera che riesce a portare in Italia. In sostanza è una specie di sottocaporale, perché grazie a lui la macchina del caporalato si mette in moto in Romania per rispondere alla forte domanda di lavoro stagionale.

«Io non faccio come gli altri. Non prendo i soldi su tutti quelli che arrivano. A me mi paga il padrone italiano che mi chiede cinquanta persone e io so come farle venire»

Questa della mediazione tra domanda e offerta di lavoro è la vera attività del caporale. Serve a svicolare dalle maglie strette di una normativa assurda, la Bossi-Fini, che prevede la chiamata diretta e nominale del lavoratore residente all’estero. I datori di lavoro del Nord, quelli che più necessitano di manodopera straniera in tutti i settori produttivi, fanno spesso ricorso a mezzani come Marcello per rispondere alle esigenze del mercato.

«Il padrone deve fare la stagione. Io chiamo la mia famiglia. Noi siamo tanti. Loro si muovono, vengono qua, vengono pagati e io prendo un regalo che mi fa il padrone a fine stagione»

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A quanto ammonta questo regalo non mi è dato saperlo. So soltanto che non è inferiore ai cinquemila euro: una cifra tutto sommato ragionevole se confrontata con le cifre che toccano i caporali veri e propri. Il solo ghetto di Rignano Garganico e San Severo, nel foggiano, offre ai caporali qualche milione di euro per il solo trasporto sui campi.

 

«Qua l’uva è buona», dico.

«Di prima qualità. Il padrone ci tiene. Tutto diventa un vino che…», e fa un gesto eloquente di bontà.

Queste sono le terre della migliore uva da vino lombarda. Qui si produce una bella fetta del Pil agroalimentare regionale. La ricchezza dei produttori è visibile e contrasta fortemente con la miseria dei braccianti rumeni.

 

«Quanto vengono pagati i tuoi familiari?»

«Venticinque euro»

«Con un contratto?»

«Sempre contratto, ma con le giornate non sempre ci troviamo con i conti. Il padrone non registra tutto. Che devono fare? Così si fa in Italia…»

 

Giusto. Gli stranieri lo sanno bene che il nostro sistema culturale d’impresa non sente più suo il rispetto delle regole contrattuali, delle tutele costruite nei decenni dalle lotte bracciantili. S’è persa memoria di tutto, soprattutto del diritto.

 

«Come vengono dalla Romania?»

«Col pullman. Lo porta uno che conosco, uno fidato»

E per il trasporto pagano. Pagano tutti una cifra che è tre volte superiore alla tariffa normale di un viaggio turistico o per emigranti.

 

«Perché non prendono un bus di linea, Marcello?»

«Perché devono arrivare tutti insieme, il padrone vuole così»

 

Sarà, ma a me sembra che il trasporto obbligato su mezzi privati sia un altro modo efficace per lucrare sui lavoratori. La filiera dello sfruttamento impone i propri mezzi, i propri uomini: i propri metodi. Vale per il Nord come vale per il Sud e per il Centro: il Paese si è riunito nell’imbarbarimento del trattamento riservato ai lavoratori agricoli.

Saluto Marcello e lo lascio davanti alla roulotte del suo campo. Qui ogni tanto ci vengono quelli della Lega, a fare sfoggio di retorica e mazzate: militanti che magari sono figli e nipoti di quelle ricche famiglie di produttori di vini che, guarda un po’, da questo campo vengono a recuperare i loro braccianti.


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