“La lucina” di Antonio Moresco
È difficile da interpretare l’ultimo libro di Antonio Moresco, intitolato La lucina, edito per i tipi della Mondadori nel febbraio di quest’anno. È un breve romanzo di appena centosessantasette pagine; i capitoli sono numerati e non molto lunghi e, solo in apparenza, agevolano la lettura. Nella Lettera all’editore, posta all’inizio del volume, l’autore stesso non riesce a svelare in poche righe la storia del libro, ne lascia all’editore la scoperta. «È una storia scaturita da una zona molto profonda della mia vita, è come una piccola scatola nera. Parlandoti di questa cosa che mi urgeva dentro e che stavo per cominciare a scrivere, una sera ti ho detto che sarebbe stata per me, in un certo senso, testamentaria, che se fossi crepato il giorno dopo averla scritta sarebbe stata il mio testamento. Non perché la consideri più significativa e importante di libri come Gli esordi o Canti del caos, ma proprio per la sua particolare natura intima e segreta». Sarebbe dovuto essere «uno spunto di poche righe» in vista degli Increati – opera cui Moresco sta lavorando da anni e che verrà data alle stampe nei prossimi mesi – e, invece, la mezza paginetta è divenuta una lucina a sé stante.
Il protagonista narra in prima persona la sua sparizione in un borgo abbandonato e deserto di cui è l’unico abitante. Non sappiamo nulla di lui: né il nome né una descrizione fisica né il posto che occupa nel mondo, come se l’assenza di descrizione fosse già di per se stessa un atto della sparizione. Anche del borgo in cui vive non conosciamo il nome. Da «una seggiola di ferro dalle gambe che sprofondano sempre più nel terreno», egli contempla il paesaggio che ha davanti.
Un paesaggio impervio che svetta fino al cielo con alberi aggrovigliati e che si fa terrestre, ricoprendo e ammantando le poche case diroccate rimaste. Egli incastona la propria solitudine in questa natura che diviene sintomatologia, ma anche presagio del mal di vivere; dialoga con gli uccelli e con le lucciole, scruta le rondini in volo che «si lanciavano per l’ultima volta sulla loro pastura di insetti e di altre piccole vite sospese sopra la linea dell’orizzonte, prima di scomparire nei loro nidi tra le pietre e sui tetti».
A turbare l’isolamento dell’uomo vi è una lucina, che, ogni notte, sempre alla stessa ora, si accende improvvisamente, dall’altra parte della gola a strapiombo, su un tratto più pianeggiante del crinale di fronte alla sua casa di pietra. Cosa sarà mai? Non si capisce se è una luce che filtra da una finestra di una qualche casetta isolata nei boschi, oppure la luce di un lampione che si accende sempre alla stessa ora per un semplice impulso elettrico. Prima balugina, per poi crescere di intensità, fino a palpitare sulla retina dell’uomo che la osserva dall’altra parte dello strapiombo.
L’uomo è curioso, vuole scoprire da dove proviene quella luce. Ad attenderlo ci sarà un bambino dalla testa rasata e gli occhi rotondi, che vive da solo in una casa di pietra. È lui ad accendere quella lucina che l’uomo vede dall’altra parte del crinale. Il bambino e l’uomo diverranno amici, in una simmetria di luoghi e di destini che si dipaneranno in un inatteso epilogo.
Lo strapiombo vegetale che l’uomo osserva dalla sua seggiola conficcata nel terreno ricorda la «siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude» di leopardiana memoria. L’io narrante riflette sul senso della vita e della morte con una soggettività che lascia sgomenti e attoniti. L’essere senziente qui ha come sipario una natura che isola e avviluppa e che Moresco ha saputo rendere con un afflato lirico, non facilmente ravvisabile nella prosa italiana contemporanea.
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