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“La luce prima” di Emanuele Tonon, per una dimensione sociale del dolore e del misticismo

LEmanuele Tonon, La luce primaa luce prima di Emanuele Tonon (Isbn Edizioni, 2011) richiama alla mente l’immagine di una voragine, perché ha l’effetto di un risucchio verso il basso che costringe a rimanere con i piedi per terra, a confrontarsi con la forza di un dolore a tal punto dirompente da squarciare l’individuo e assurgere a una dimensione universale; una disperazione che genera una contemplazione estatica che non pacifica; una sofferenza talmente straziante e immensa che qualunque possibilità di racconto viene annientata. Il linguaggio risulta depotenziato perché non è in grado di offrire parole che possano esprimere una rappresentazione verbale dotata di senso: “La storia che racconto, questi frammenti di te, amore, è solo visione, non cronaca. È testimonianza. Niente può essere detto nel linguaggio che non sia visione, nessuna verità può passare interamente nel linguaggio. La verità appartiene a un altro regno, a un vertice definitivo di silenzio e beatitudine.[…]. Mi pare di essere tornato a quella vocalizzazione di quando ero il tuo figlio piccolissimo, quel balbettio che rendeva perfettamente la visione, come la rende il silenzio. È nello sterminato silenzio che si invera il mondo. In principio era il silenzio, non il verbo” (p. 56). La morte della madre segna una cesura tra il prima del racconto e il dopo irraccontabile perché non razionalizzabile e, perciò, indicibile: “la lengua no ’l sa dire quant’è el meo cor penato! / La lengua no ’l sa dire, cà ’l core no ’l pò pensare; / ben va fin al dolore, ma non ce pòte entrare, / ch’è maiur ca lo mare lo dolor c’ho albergato” (Jacopone da Todi, Or chi averia cordoglio vorriane alcun trovare, vv. 14-17). Con Tonon, entriamo in una dimensione che rende superflui gli interrogativi moralistici sull'aderenza delle parole ai fatti: qui siamo in pieno misticismo, anzi in quella mistica del dolore come forma non strutturata di ricerca contemplativa.

Ciò che non si può ridurre a racconto, ciò che è visione illogica, apparizione imprevedibile e non negoziabile socialmente non può, però, rimuovere il bisogno di condivisione e, dunque, necessita di una lingua nuova: “Quello che ti sto scrivendo vorrebbe essere la lingua incomprensibile che però miracolosamente tutti capiscono, amore, vorrei che tutti capissero, ma so che alcuni diranno che sono ubriaco. Ma questa è la mia lingua degli angeli, prima del silenzio in cui potrò ritrovarti e stringerti, eternamente. Io non so se c’è altra letteratura possibile e non mi interessa nemmeno più saperlo” (p. 92). Siamo oltre la normale funzione sociale che induce l’esigenza di comunicare; questa è la solitudine di chi, nella contemplazione del vuoto generato dal lutto, ha bisogno di una lingua inedita per rendere comprensibile la grandiosità delle visioni dolorose: “Signor, non n’ài cordoglio, ch’el meo mal vidi e senti? / Vorriame metter cordoglio all’altra bona iente; / lo dire non è negente, ché ’l parlar m’è mozzato. / Vorria trovare alcuno che llo s’endivinasse; / non se ’n porria soffrire che non se nne plorasse! / O Deo, et o’ me lasse, enfra inimici, esciarmato?” (Jacopone da Todi, Ibidem, vv. 18-23).

Il desiderio terribile di gridare il proprio dolore accomuna Tonon e Jacopone in un percorso che lega a doppio filo la disperazione e l’amore; il folle amore che fa de La luce prima una lauda contemporanea, in cui la disperazione è figlia di una incomunicabilità che, secondo un modello caro a Emil Cioran, diventa itinerarium mentis verso l’incarnazione del Cristo in ogni sofferente: “Io sono il nemico, è in me che si compie la tua storia, io sono il figlio che ti ha abbandonato e tu, per troppo amore, hai fatto altrettanto, all’improvviso” (p. 107). Chi è il nemico? “O Vergen plu ca femena, / santa Maria beata! / Plu ca femena, dico; / onn'om nasce inimico / (per la Scriptura espleco), / nant'è' santa ca nata” (Jacopone da Todi, O Vergen plu ca femena, vv. 1-6). Se il nemico è Gesù, in Tonon si realizza una duplice trasfigurazione: il figlio diventa Cristo e la madre diventa la Vergine, insieme Maria Beata e Addolorata, donatrice di linguaggio (“Tu, amore, mi avevi trasmesso il dono del linguaggio”, p. 37), come la Vergine di Jacopone che ospita dentro di sé il Verbo, portandolo nel mondo come suo nemico (“Lo Verbo creans omnia / vestito è 'n te, Virginea;”, Jacopone da Todi, Ibidem, vv. 75-76). Mentre in Jacopone, però, l’amore per la Madonna si esplicita attraverso l’adesione al dogma mariano della Verginità perpetua (“O prena senza semina,/ non fo mai fatto en femena;”, Ibidem, vv. 71-72) e all’esegesi biblica tradizionale che alimenterà il dogma dell’Immacolata Concezione (“L'original peccato, / c'Adam à sementato, / onn'om con quel è nato, / tu n'èi da cquel mundata”, Ibidem, vv. 15-18), in Tonon non ci sono dogmi, ma la consapevolezza di una gravidanza casuale (“Eri rimasta incinta per caso, facevi la serva presso un medico di Napoli”, p. 35), nata da un rapporto forse subito (“Ti ha presa, ti ha avuta, si è fatto vanto della tua bellezza. Non è stato nemmeno capace di trattenere le goccioline di sperma, il mio padre biologico. Ti ha fecondata.”, p. 35), ma pur sempre accettata e portata a compimento, secondo un modello nuovo di maestà sociale: “Tu, amore, sei stata una donna fuori del tempo, hai avuto il coraggio, quaranta anni fa, di farmi entrare nel mondo da sola, quando era inconcepibile mettere al mondo un figlio senza essere sposati. Tu li hai fregati tutti, tu li hai anticipati tutti, tu eri una donna antichissima eppure custode della soglia del tempo ultimo del mondo. Tu sei entrata nel tempo per portarlo alla dissoluzione.” (p. 36).

Albrecht Dürer, Cristo, uomo dei doloriQuesta duplice trasfigurazione agli occhi del lettore, o vera e propria identificazione mistica per Tonon, comporta un ulteriore scarto rispetto alla tradizione: non è la Madre a piangere la perdita di un sostegno nel Figlio (“figlio, e a ccui m’apiglio? / Figlio, pur m’à lassato!”, Jacopone da Todi, Donna de Paradiso, vv. 118-119), ma, in una società in cui il precariato si è esteso dall’ambito lavorativo a quello sociale e morale, è il figlio a piangere la madre, riconoscendole, fino alla fine, un ruolo di sostentamento, sebbene dalla prospettiva piena di pudore di chi, vergognandosi del proprio desiderio, lo attribuisce alla madre (“Come hai fatto a morire così? Hai aspettato il primo di luglio, perché entrasse nel libretto postale l'ultima pensione. Sei stata in coma tutti quei giorni come ad aspettare quel primo di luglio, come a volermi lasciare quei pochi soldi di cui sapevi avevo bisogno per vivere, io che senza di te stavo morendo”, p. 58-59). Una nuova forma di misticismo entra nella letteratura; un misticismo connotato da un forte radicamento nella dimensione sociale, i cui meccanismi sono sublimati ma non anestetizzati, anzi amplificati dal dolore posto al centro di questa lauda e che si concretizza nelle manifestazioni dei segni tangibili della passione di Cristo (“Ho passato anni a sognarmi stimmatizzato, amore, stavo nel letto e mi sentivo i fori nei palmi delle mani, nei piedi, lo squarcio sul costato. [….] Adesso invece le ho davvero, le stimmate, da quando sei sparita all’improvviso”, p. 78). Non è più la Vergine di Jacopone a gridare “figlio, figlio, figlio”, ma è il figlio a sussurrare “amore” in una cantilena rilanciata ad ogni ripetizione della parola.

 

 

 

Alcuni simboli e momenti della tradizione permangono in Tonon, ma in un processo di originale rilettura:

  • La chiamata: in Jacopone, è il coro che si rivolge a Maria per annunciarle la futura perdita di Cristo (“Donna de Paradiso, / lo tuo figliol è preso / Iesù Cristo beato”, Donna de Paradiso, vv. 1-3); in Tonon, invece, si invera in una duplice chiamata: quella inascoltata della madre, nel momento culminante dell’“assunzione al cielo” che, per il figlio, si identifica con quello della morte (“Ti sei seduta sul trono, ad aspettare che arrivassi ad incoronarti. Per questo mi hai chiamato. La tua chiamata voleva dirmi: figlio è tempo, mettimi la corona in testa che devo lasciarti”, p. 16) e quella della datrice di lavoro della madre che, qui, ricopre la funzione del coro di Jacopone (“Sono Daniela, non preoccuparti, ti chiamo solo per dirti che tua madre è svenuta e abbiamo chiamato l’ambulanza”, p. 12);
  • La consolatio, che, in Jacopone, è il tentativo di Cristo di affidare la Madre alle cure di Giovanni (“Mamma col core afflitto, / entro ’n le man’ te metto / de Ioanni, meo eletto; / sia to figlio appellato. / Ioanni, èsto mea mate: / tollila en caritate,/ àginne pietate, / cà ’l core sì à furato”, Donna de Paradiso, vv. 104-111), rivive, in Tonon, nelle figure di Monica, che per la madre rappresenta l’amore a cui lasciare il figlio dopo la propria morte (“Mentre la morte si apriva un varco nel tuo corpo, ti davi continuamente pensiero per me e Monica. Ti abbiamo aiutato a morire io e lei”, p. 102) e di Giovanna, che quasi rappresenta la consolazione che il figlio vorrebbe regalare alla madre ormai morta (“Giovanna mi ha sempre e solo accarezzato, regalato parole che mi leniscono le piaghe, mi placano i pensieri atroci”, p. 72);
  • La crocifissione, che in Jacopone è vista dagli occhi della Madre che piange il Figlio (“Stabat materm dolorosa / iuxta crucem lacrimosa, / dum pendebat filius;”, Stabat mater, vv. 1-3), in Tonon è narrata con gli occhi del figlio che assiste a quella della madre (“Il tuo figlio ai piedi della croce, sulla quale stai inchiodata”, p. 64);
  • La deposizione, che, nelle raffigurazioni classiche, riprende Maria, Cristo e la Maddalena ai piedi della croce, in Tonon diventa la disperazione di chi assiste inerme alla profanazione del corpo materno anche ad opera dei medici (“Ti stringevo i piedi, in ginocchio, amore, mentre il medico faceva cadere in terra i tuoi denti finti da quattro soldi”, p. 54);
  • Il sudario: “Mi sono accorto del tuo pigiamino azzurro, perfettamente piegato e adagiato sul letto come il sudario del Cristo sul termosifone”, p. 28;
  • La giustificazione, elemento fondamentale della mistica del dolore: in Jacopone lenisce le sofferenze della Madre perché giustifica la morte del Figlio come sacrificio per la salvezza dell’umanità (“Pro peccatis suae gentis / vidit Iesum in tormentis / et flagellis subditum”, Stabat mater, vv. 19-21); in Tonon, è la donazione fisica della madre a ridare vita a chi è in procinto di perderla (“Abbiamo permesso la donazione di te. Non sappiamo dove sei, ora, con la tua carne. Non sappiamo a chi permetti ancora di stare al mondo”, pag. 50; “È la tua ultima gloria, questa, i pezzi del tuo corpo a farti madre di tutti, i pezzi divelti di te a renderti salvatrice di tutti, ma non del tuo figlio, che non doveva nascere. Ma che doveva rinascere”, p. 58);
  • Il ricongiungimento, inteso, in Jacopone, come il desiderio della Madre di morire insieme al Figlio nell’ambiguo tentativo di lenire le sofferenze sue e di Cristo (“Che moga figlio e mate / d’una morte afferrate,/ trovarse abraccecate / mat’e figlio impiccato!”, Donna de Paradiso, vv. 132-135), in Tonon è il desiderio del figlio di morire la stessa morte della madre (“Voglio morire come sei morta tu”, p. 66), quasi a garanzia del ricongiungimento finale (“Ti sentirò nel silenzio che non sarà nemmeno silenzio, avremo le bocche cucite per l’eternità, […], mi apparirai come mi appari nel sonno, […], ci abbracceremo, tu mi perdonerai per l’eternità”, p. 108).

Il dolore di Tonon ha trovato una forma espressiva originale all’interno di un impianto di stampo mistico-religioso che, a tratti, rasenta l’eresia folle e disperata. Ed è per questo che, con altrettanta eresia, di questo figlio si può dire ciò che Jacopone disse di quella Madre:

Quis est homo, qui non fleret,
matrem Cristi si videret
in tanto supplicio?
Quis non posset contristari,
matrem Christi contemplari
dolentem cum Filio?

(Stabat mater, vv. 13-18).


Le citazioni da Jacopone sono tratte da Laudi del folle amore, a cura di Daniele Piccinni, Baldini Castoldi Dalai, 2006.

La seconda foto (sul lato sinistro) è una riproduzione del Cristo, uomo dei dolori di Albrecht Dürer, 1493 circa, Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe.

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