La luce che cattura il mondo. Intervista a Raffaella Romagnolo
Di luce propria è una porta che si spalanca su un mondo ignoto ai più. La luce a cui si riferisce il titolo è quella necessaria per catturare un’immagine e renderla eterna.
Uscito per Mondadori, il romanzo di Raffaella Romagnolo è una lettura piacevole, calda e confortevole, ricca di chicche dalle quali si scopre una dimensione lontana eppure parte integrante dell’esistenza di tutti i noi. Nessuna arte è diventata un’arte di massa come lo ha fatto la fotografia, e non si intende nell’ottica del consumo. Siamo tutti fotografi. Anzi, siamo tutti fotografi?
Di come sia nato il romanzo, se il personaggio principale sia realmente esistito – così come si ha la sensazione nel leggere Di luce propria – e di tanto altro abbiamo parlato con Raffaella Romagnolo.
Come nasce Di luce propria?
Per vie tortuose. Avevo terminato la stesura di Destino e desideravo scrivere una storia che fosse collegata a quel romanzo, all’ambientazione del Borgo di Dentro soprattutto, ma in un periodo storico differente. Pensai di approfondire l’epopea dei garibaldini, visto che uno dei personaggi principali di Destino, Domenico Leone, aveva partecipato all’impresa. Cominciai allora a leggere tutto quello che, sul tema, mi capitava sottomano. Per caso mi sono imbattuta nella figura di Alessandro Pavia, un fotografo che si era messo in testa di fotografare i reduci della spedizione dei Mille, di ficcarli in un album e poi di venderlo a tutti i comuni d’Italia. Un progetto folle, visionario, affascinante e inevitabilmente fallimentare. Un’idea che ha in sé qualcosa di antico – il monumento agli eroi – e qualcosa di sorprendentemente contemporaneo come riproducibilità tecnica della fotografia. Sono partita da lì, da lui. Mi affascinava l’idea di raccontare il fallimento, la poesia di chi dedica la vita a un ideale che il mondo non comprende. Ma non sentivo Pavia come il protagonista principale. Affiancargli un giovane assistente è stata un’operazione automatica. Che fosse un orfano del Pammatone è stata invece una scelta consapevole: come in Destino, anche qui volevo scrivere di relazioni, affetti, famiglie. E chi, più di un orfano, desidera farsi una famiglia?
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Ci sono tante informazioni che disvelano un mondo molto preciso, ovvero quello della fotografia, dei suoi albori: in che modo ha affrontato la parte relativa alla documentazione e quanto è stato difficile reperire le informazioni tecniche?
Il problema era orientarsi. La fotografia è stata una delle invenzioni più strabilianti e gravide di conseguenze dell’età contemporanea. Da una parte ci sono gli aspetti tecnici, soggetti, in un paio di secoli, a innovazioni a dir poco frenetiche (dal dagherrotipo “esemplare unico”, alla riproducibilità meccanica, al cinema, al colore, al digitale). Dall’altra c’è la riflessione sul “fotografico”, che tra Otto e Novecento ha coinvolto le migliori menti. Due nomi, tanto per dare l’idea: Walter Benjamin e Roland Barthes.
È stata una bella sfida perché, come romanziera, dovevo restare attaccata all’”umano” e padroneggiare entrambi gli aspetti. Sapere cos’è, poniamo, la carta albuminata maneggiata dal mio protagonista e, nel contempo, indagare l’effetto sulla percezione del mondo che la fotografia porta nella sua vita e in quella dei suoi contemporanei. Con un di più. Non mi sono trovata a studiare un processo concluso, una tecnologia obsoleta. La “rivoluzione” fotografica è tutt’ora in atto, ci vede tutti protagonisti. Basta pensare all’importanza dell’immagine, all’apparente facilità per cui oggi siamo tutti “fotografi”. Insomma, più sprofondavo nel passato e più mi trovavo invischiata nel presente.
Fare i fotografi, nel tempo che sta descrivendo in Di luce propria, è tutt’altro rispetto a quello che è oggi. In che modo differiva? Meglio ancora: quali caratteristiche dovevano avere i bravi fotografi?
Erano personaggi curiosi, ne sapevano di chimica, di fisica, erano attenti alle novità. Veri figli del Positivismo allora imperante. Gente di gusto, anche, con l’occhio all’inquadratura, alle infinite sfumature dei viraggi. Si intendevano di acidi, di ottiche e nello stesso tempo si mettevano in competizione con i pittori, cioè i depositari storici della bellezza. Non mi riferisco tanto a maestri come Nadar, ma alle migliaia di professionisti autodidatti che lavoravano in piccoli atelier o per strada, battevano le campagne con lastre di vetro, macchine trasportabili e camere oscure smontabili. Alla fine dell’Ottocento le cose cambiano grazie all’invenzione di strumenti come la Kodak n° 1, che semplifica il lavoro e consente anche a chi non sa trattare solventi e sali d’argento di scattare fotografie. Una tragedia, per chi si era costruito una carriera su quel sapere da iniziati. Una rivoluzione che, passo dopo passo, arriva ai nostri smartphone.
Antonio Casagrande è esistito realmente? In caso negativo, si è ispirata a un personaggio particolare? In caso affermativo, quanto di vero c’è nel romanzo e quanto è frutto dell’immaginazione?
Antonio Casagrande è un personaggio di finzione ma vive in un mondo che ho cercato di restituire nella sua verità storica. Vero è l’orfanotrofio di Pammatone, vera la condizione degli “esposti”. Il suo mentore, Alessandro Pavia, il fotografo dei Mille, è realmente esistito. Divenuto a sua volta fotografo, Antonio Casagrande si trova poi a testimoniare momenti storici che sento decisivi di quel periodo: le imponenti esequie di Mazzini a Genova, quasi un rito funebre per il Risorgimento tutto; i tumulti in piazza e le cannonate di Bava Beccaris a Milano; il discorso di D’Annunzio dallo scoglio di Quarto, ossia l’inizio del “radioso maggio” che spinse l’Italia a capofitto nel massacro della Prima guerra mondiale.
Ma di Antonio Casagrande mi interessava soprattutto l’evoluzione spirituale e sentimentale, da orfano a padre di famiglia. Anche se di una famiglia molto speciale, in cui i figli non sono veri figli, i genitori non sono veri genitori e perfino i nonni non sono veri nonni.
Il padrone di Antonio è un uomo molto particolare; attraverso le sue idee assaggiamo sin da subito il quadro storico che fa da sfondo alla vicenda. Quali sono le idee politiche del padrone?
Alessandro Pavia era quello che all’epoca si sarebbe detto un “patriota”. Nutre per Garibaldi e i suoi mille volontari la venerazione che si riserva a chi ha compiuto il miracolo di fare di un paese disgregato e straccione una nazione che sta all’onor del mondo. Non si accorge però che l’unità politica del Paese coincide con la fine di un sogno, e che l’afflato potente che ha mosso quelle generazioni alla lotta non trova posto nella grigia e feroce Italia umbertina, dove uno degli ideatori della spedizione dei Mille, Francesco Crispi, divenuto primo ministro, manda l’esercito contro i contadini siciliani in rivolta.
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Conosciamo Antonio impegnato a tenere un quaderno in cui trascrive il mondo e se lo spiega, i suoi misteri relativi alla matematica spiccia, i suoi vocaboli. È questo il tramite che gli permette di allontanarsi da Pammatone e superare la propria condizione di orfano, umile e senza possibilità?
L’orizzonte ristretto del Pammatone è niente rispetto alle infinite possibilità che si schiudono davanti ad Antonio Casagrande apprendista fotografo. Impara tutto quello che può, ruba il sapere al suo maestro e finirà per superarlo. La scrittura cessa di essere un obbligo mal digerito, imposto a suon di bacchettate, e diventa il tramite per fissare su carta la meraviglia del mondo. Il quaderno degli esercizi registra così il suo stupore di fronte a ciò che non conosce. E che mai avrebbe immaginato.
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Per la prima foto, copyright: Leon Seibert su Unsplash.
La terza foto è di Lucia Bianchi. La fonte è qui.
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