La lezione della Giustizia secondo Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo
Il libro La tua giustizia non è la mia dei magistrati Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, uscito per Longanesi, è un riuscitissimo tentativo di costruire un dialogo efficace intorno ai temi della giustizia nell’Italia contemporanea. Senza scadere nel moralismo, la conversazione tra i due addetti ai lavori verte principalmente sulle relazioni tra possibilità investigativa e capacità di costruire, anche sul piano sociale, un’idea di giustizia in un Paese profondamente ingiusto.
Partendo da un assunto, e cioè che il tema della giustizia va affrontato con l’occhio di chi conosce la filosofia della giustizia (Kant torna molto utile come guida alla lettura del testo), il lavoro apre a una reinterpretazione della vulgata giornalistica e mediatica, in generale, intorno ai processi, alle intercettazioni, all’uso dei testimoni, alle infiltrazioni negli ambienti criminali. Si entra nella dimensione sociale della costruzione della giustizia. In genere si pensa che fare giustizia significhi arrivare ad esprimere un verdetto preceduto da indagini fondate sulla tecnica indagativa. I due autori, invece, ci aprono un mondo di profonda umanità dentro le indagini, di scelte, di opzioni e di arbitrarietà interpretativa secondo orientamenti di valore che possono/devono stonare con quelli più diffusi. Se vogliamo, l’esperienza di mani pulite è questo: un’inversione di valore introdotta dalla magistratura inquirente nella società e nella società politica.
Il titolo del volume, infatti, rivela proprio questo: quanto la giustizia sia spesso considerata aliena dalla società che la partorisce. Si autorappresenta, se vogliamo, nell’equilibrio dei poteri. Questo emerge dalla lettura delle pagine dei due magistrati, come tra le righe, come fatto sottostante, come fiume sotterraneo che irrora l’esclusione sociale della giustizia necessaria alla giustizia stessa. D’altra parte, tale apparente estraneità strutturale altro non è che il nutrimento dell’indipendenza e dell’autonomia. E non stupisce che il tema ricorrente accanto a quello della scelta sia quello della libertà, di cui la politica sulla quale si è indagato e si indaga ancora ha costruito non poche fortune e disgrazie. La libertà e la conoscenza della libertà, dei limiti oltre i quali l’arbitrio fa male, diventa un problema di cui la società deve disfarsi.
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I due autori concentrano la loro attenzione su temi e norme che attraversano il Paese. La corruzione, per esempio, che fonda un pezzo delle relazioni tra politica e impresa ovunque, che trova al Nord un brodo di coltura più caldo perché più vicino ai grandi interessi economici europei. O la privacy, sulla quale la differenza tra cittadino comune e cittadino pubblico pone problemi alla giustizia, prima che alla politica. Perché se è vero che i cittadini sono tutti uguali davanti alla legge, non è altrettanto vero che i media si comportano allo stesso modo quando devono trattare di un politico o di uno sconosciuto. La giustizia deve dunque mediare, correggere, emendare la società dello spettacolo, che spettacolarizza i processi, le inchieste: che colpevolizza senza prove, che sputa sentenze. È il tema dei temi, questo.
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La società italiana tende a pensare alla giustizia come a un fatto privato. Gli autori ce lo fanno capire e ci inducono a esprimere un giudizio correttivo verso i nostri comportamenti. Dovremmo lasciar fare alla giustizia avendo piena fiducia in essa. Dovremmo lasciar perdere il pregiudizio che travalica l’obiettività e che scade nel conformismo mediatico, nell’obbedienza al circo televisivo, dei social media. Tali suggerimenti escono dalla lettura di questo libro doppio, dove il dibattito tra i due autori (così lontani, così vicini) dà rotondità al tema della giustizia e della legalità. Ne avevamo bisogno, in fondo. Di sentire due voci anche discordanti per restituire profondità, tridimensionalità all’argomento. La tua giustizia non è la mia, di Colombo e Davigo, è allora un mezzo per avvicinarsi più rispettosamente all’argomento.
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