La letteratura e i misteri dell’essere umano. Joyce Carol Oates legge alcuni grandi classici
Più grande tra tutti sarà colui che può essere il più solitario, il più nascosto, il più diverso, l’uomo al di là del bene e del male, il signore delle proprie virtù, ricco quant’altri mai di volontà.
Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male
Questa citazione è il fulcro intorno al quale ruota il libro Ai limiti dell’impossibile. Forme tragiche in letteratura (The Edge of Impossibility. Tragic Forms in Literature) che troviamo anche riportata in esso: in realtà una raccolta di saggi scritti da Joyce Carol Oates tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso quando davanti a sé aveva ancora tanta strada da percorrere nella quale avrebbe spaziato dai romanzi ai racconti, dal teatro alle poesie, compresa la platea di ragazzi e bambini, nonché i più vari sottogeneri, dal gotico al realistico, col risultato di essere fra le più prolifiche nel panorama internazionale distinguendosi per il suo eclettismo. Grazie a Il Saggiatore, casa editrice che da un po’ di tempo sta pubblicando o in alcuni casi ripubblicando la scrittrice statunitense, come l’Epopea Americana o altri oramai famosi, viene dato alle stampe per la prima volta in Italia, nella traduzione di Giulia Betti.
Una vera e propria dissertazione contenuta in 240 pagine a metà strada tra il saggio critico e il filosofico (con delle sopraffine implicazioni psicologiche) all’interno della quale troviamo una colta analisi di produzioni narrative e pièce teatrali, che solo una persona con notevole spessore letterario come lei poteva realizzare. Allo scopo di individuare e approfondire il nucleo tragico della e nella finzione artistica adduce molteplici voci critiche, consapevole che nella vita siamo tutti noi “attori”, divisi tra ciò che è bene e ciò che è male, chiusi in tale dicotomia.
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L’introduzione, onirica e all’apparenza consolatoria, ci avvisa:
«L’eroe al fulcro della tragedia esiste affinché possiamo testimoniare, nella sua distruzione, il rovesciamento delle nostre vite private. Ci adattiamo allo spettacolo di una forma d’arte, paralizziamo il nostro scetticismo per vedere oltre l’artificio della stampa o del palco e condividiamo in un sogno misterioso la necessaria perdita dell’io, perfino mentre l’io in questione sta leggendo oppure osservando, perdendoci nel testimoniare la morte di qualcuno cosicché, nel nostro mondo di umani, questo eroe possa rinascere ancora. L’eroe tragico muore ma viene ridato alla luce eternamente nei nostri sogni; la rudezza del nostro desiderio per un assoluto viene riscattata dalla bellezza che così spesso avvolge questo sogno. Si può spiegare il sogno ma mai la sua bellezza. L’eroe muore nella nostra immaginazione mentre, senza poter fare niente, viviamo le nostre vite che non sono mai opere d’arte – perfino le vite inermi degli «artisti»! – e non sono mai comprese. La sofferenza viene espressa nella letteratura tragica e perciò questa letteratura è irresistibile, una terapia per l’anima».
Quindi, qual è il discrimine fra realtà, apparenza e immaginazione? Quanto siamo consci, se lo siamo, del nostro lato oscuro?
Beninteso, lo scopo del presente volume non è fornire in sé per sé una risposta a siffatti interrogativi. Non ce n’è bisogno. Sono i soggetti presi dalla storia e dalla letteratura a farlo per il lettore.
Ai limiti dell’impossibile consta di nove capitoli, due dei quali dedicati a Shakespeare e altri due a William Butler Yeats. Gli altri riguardano nell’ordine Melville, Dostoevskij, Čechov (con un interessante raffronto al teatro di Beckett e una nuova definizione di “assurdo”), e Thomas Mann. Chiude Eugène Ionesco, il più contemporaneo dell’elenco.
Se – indicando in questa sede i più noti anche per il nostro immaginario – Troilo e Cressida e Antonio e Cleopatra (drammi che Shakespeare pone in essere attingendo dall’antico passato greco e romano) in un vortice di illusioni e disillusioni vengono definiti (e finiti) dai loro medesimi tormenti – oltre che essere coppie di amanti – facendosi interpreti di sentimenti ambivalenti, tra ciò che sono e ciò che vorrebbero essere, il capitano Achab di Moby Dickva alla ricerca via mare della propria identità e viene coinvolto in una lotta perenne tra apparenza e realtà. Un eroe tragico che sceglie da solo il suo destino, per quanto questo possa sembrare sbagliato agli occhi degli altri, ed eroe romantico, ponendosi in rapporto alla balena bianca come il Satana di Milton (del celeberrimo Paradiso Perduto) si pone a Dio, ovvero un ribelle che alterna violenza e disperazione contro l’ordine supremo.
La memoria riporta – e gli estimatori della narrazione visionaria di Oates l’avranno notato – a Cressida, che è pure il nome della protagonista di uno dei suoi romanzi più recenti.
I fratelli Karamazov invece, capolavoro russo portavoce di contraddizioni individuali e collettive, è ritenuto espressione massima dell’epigrafe evangelica «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto», i cui personaggi sono in continuo divenire, nel quale bene e male si fondono e confondono grazie all’abilità dell’ideatore e dove «i doppi si moltiplicano e sollevano dubbi sul fondamento dell’identità individuale».
Importante sulla scorta di tale discorso, il cosiddetto “patto col diavolo”.
Adrian, il protagonista compositore nella versione del Dottor Faust di Thomas Mann, accetta di contrarre la sifilide per avere in cambio il suo genio musicale amplificato a livelli assoluti: «Non solo tu vincerai le paralizzanti difficoltà del tempo, ma spezzerai il tempo stesso», gli dice Mefistofele. E Nietzsche, citato all’inizio, la cui dottrina esprime con magnificenza le antitesi, ritorna, essendo entrambi, Adrian e lui, “uomini postumi”. Sono cioè in grado di creare se stessi, mai compresi nel genio se non, appunto, solo da loro stessi.Nietzsche pur essendo esistito in carne e ossa rispetto all’altro costituisce
«il fondamento di gran parte della personalità di Adrian, della sua vita, del suo terribile destino (anni di follia infantile), perfino delle sordide circostanze riguardanti il suo fato (l’infezione da sifilide). Come Nietzsche, Adrian vive lontano dall’umanità in una sorta di esilio ascetico; come Nietzsche, viene schernito e odiato per la sua musica barbara, e profondamente ammirato da quei pochi che simpatizzano con lui senza mai capirlo profondamente».
Nel tragico isolamento dell’io sono caratterizzati dalla più difficile delle condizioni dell’artista, dell’intellettuale. «L’arte ai limiti dell’impossibile», dice Oates.
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In odore di Nobel da molto tempo – insieme al connazionale Philip Roth che l’ambito premio non lo può più ricevere, morto quasi un anno fa, e col quale ha condiviso alcune tematiche, in particolare la denuncia di un certo perbenismo che affligge molta parte di politica e società americana – l’autrice di Lockport, classe 1938, ha sempre vissuto la scrittura più come una missione, se non come un’ossessione (tra l’altro docente universitaria di scrittura creativa) indagando negli abissi dell’io, per scrutare l’imperscrutabile, priva di paure e ipocrisie, senza mai fermarsi alla superficie delle cose. Il che trova nella maschera, scelta non a caso dagli editori e che appare infatti nella copertina, il suo simbolo e il suo significato.
Ai limiti dell’impossibile. Forme tragiche in letteratura si palesa sin dalle prime pagine una lettura estraniante, impegnata, “di carattere”, vien da dire. Una sola volta forse non è nemmeno sufficiente per assimilarne gli anfratti, ma Joyce Carol Oates riesce, attraverso una profonda ricerca e un accurato studio dell’arte letteraria, a dar conto dei grandi e insondabili misteri dell’essere umano.
Per la prima foto, copyright: Tiko Giorgadze su Unsplash.
Per la terza foto di Dustin Cohen, la fonte è qui.
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