La lettera con cui Elio Vittorini rifiutò di pubblicare “Il Gattopardo”
Siamo nel luglio del 1957, quando Elio Vittorini, che all’epoca lavorava per Einaudi, scriverà a Giuseppe Tomasi di Lampedusa a proposito de Il Gattopardo.
Nella lettera, l’autore di Conversazione in Sicilia, conferma il giudizio non proprio positivo sull’opera che aveva già espresso nel 1956, quando collaborava con Mondadori, ed entra nel merito di quelli che per lui sembravano alcuni punti deboli fino a sottolineare l’impossibilità di procedere alla pubblicazione per questioni legate all’organizzazione della collana einaudiana da lui diretta.
Ecco il testo completo della lettera, così come riportata sul sito della casa editrice Feltrinelli, che poi procedette alla pubblicazione de Il Gattopardo.
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Milano, 2 luglio 1957
Egregio Signor Giuseppe Tomasi, via Butera, 28 – Palermo
Egregio Tomasi, il suo “Gattopardo” l'ho letto davvero con interesse e attenzione. Anche se come modi, tono, linguaggio e impostazione narrativa può apparire piuttosto Vecchiotto, da fine Ottocento, il suo è un libro molto serio e onesto, dove sincerità e impegno riescono a toccare il segno in momenti di acuta analisi psicologica, come nel capitolo quinto, forse il più convincente di tutto il romanzo.
Tuttavia, devo dirle la verità, esso non mi pare sufficientemente equilibrato nelle sue parti, e io credo che questo "squilibrio" sia dovuto ai due interessi, saggistico (storia, sociologia, eccetera…) e narrativo, che si incontrano e scontrano nel libro con prevalenza, in gran parte, del primo sul secondo.
Per più d'una buona metà, ad esempio, il romanzo rasenta la prolissità nel descrivere la giornata del "giovane signore" siciliano (la recita quotidiana del Rosario, la passeggiata in giardino col cane Bendicò, la cena a Villa Salina, "il salto" a Palermo, dall'amante, eccetera...) mentre il resto finisce per risultare piuttosto schematico e affrettato.
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Voglio dire che, seguendo passo passo il filo della storia di don Fabrizio Salina, il libro non riesce a diventare (come vorrebbe) il racconto d'un epoca e, insieme, il racconto della decadenza di quell'epoca, ma piuttosto la descrizione delle reazioni psicologiche del principe alle modificazioni politiche e sociali di quell'epoca.
E in questo senso, per la verità, non mi sembrano letterariamente nuovi i rapporti di don Fabrizio col nipote "garibaldino" Tancredi o col rappresentante della «nuova classe» in ascesa, don Calogero Sedara, o il matrimonio di Tancredi con Angelica, la figlia del Sedara, eccetera...
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Il linguaggio, più che le scene e le situazioni, mi pare riveli meglio, qua e là, il prevalente interesse saggistico-sociologico del romanzo. Mi permetto di citarle qualche brano per maggiore chiarezza. “La parola snob era ignorata in Sicilia nel 1860: ma così come prima di Koch esistevano i tubercolotici, così in Sicilia, ecc. ecc. snob è il contrario dell'invidioso...” pag. 82; “Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità il desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate desiderio di morte... la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera e di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi dal nirvana...” pago ,128, ecc… ecc… Veda ancora in proposito il lungo colloquio di Don Fabrizio Salina con l’inviato piemontese Chevalley, da pagina 124 a pagina 133, e soprattutto i «discorsi» del principe al piemontese. Queste, in definitiva, sono le mie impressioni di lettore e gliele comunico pensando che, in qualche modo, potrebbero anche interessarle.
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Per il resto, purtroppo, mi trovo nell'assoluta impossibilità di prendere impegni o fare promesse, perché il programma dei "Gettoni" è ormai chiuso per almeno quattro anni. Ho già in riserva, accettati per la pubblicazione, una ventina di manoscritti che potranno uscire al ritmo di non più di quattro l'anno. Il manoscritto glielo faccio avere con plico a parte.
Con i migliori saluti, suo Elio Vittorini.
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