“La lavoratrice” di Elvira Navarro, la psicosi della società moderna
«[…] un presente che era più disperato del presente di chiunque altro, perché io non speravo in nulla di meglio di quanto stavo vivendo, e quanto stavo vivendo nemmeno lo volevo.»
La lavoratrice, protagonista dell’omonimo romanzo di Elvira Navarro (edito da LiberAria nella traduzione di Sara Papini) è Susana, una giovane e misteriosa donna che condivide un piccolo appartamento con Elisa; un modo come un altro per riuscire a pagare l’affitto e per dimezzare le spese, ma non solo. Ben presto tra le due donne s’instaura un dialogo, frammentato, sconclusionato, alienante, al limite del delirio. Susana racconta, ma fino a che punto Elisa può credere alle sue parole? Ci sono troppe cose che non combaciano, troppe stranezze. Susana ed Elisa sono entrambe sole, sebbene sotto lo stesso tetto, le loro conversazioni non sono dei veri scambi, sono dei racconti scoordinati che hanno bisogno di uscire dai loro corpi.
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La lavoratrice è una donna che lavora in una casa editrice, che si cava gli occhi passando notti intere a leggere bozze e manoscritti, e che puntualmente viene sempre pagata in ritardo. È una donna che, la sera, quando esce da lavoro, non vuole far altro che prendere un bus a caso e lasciarsi condurre lungo la città, senza una meta.
È una donna che accumula appuntamenti in maniera seriale, che ascolta e riascolta i messaggi che gli uomini le lasciano in segreteria. È una donna con un desiderio particolare, strambo, fuori dal comune, senza un uomo che possa, o che voglia, soddisfarlo. È una donna che ha bisogno di amore, che lo cerca, ma che non sa neanche lei dove trovarlo; non c’è posto per i sentimenti autentici e profondi nella giungla della vita moderna.
La lavoratrice è una donna che, dopo un crollo psicotico, sviluppa una fobia: quella del denaro. La fobia di restare senza lavoro. «Non avrei mai trovato un lavoro con cui sopravvivere.» Una donna che prende il litio per stabilizzare l’umore; la routine di farmaci le impedisce di rimettersi in piedi, di iscriversi all’università o anche solo di cercare un impiego temporaneo.
Come riuscire a gestire una salute mentale precaria, e allo stesso tempo a condurre una vita dignitosa senza l’aiuto di nessuno? Con tutto il peso della società, della città, del denaro, del tempo che non si ferma, del senso di confusione e di smarrimento addosso?
Malattia mentale e precarietà lavorativa; molto spesso vanno di pari passo, molto spesso una trascina dietro di sé l’altra, e viceversa. Due dei grandi mali del nostro secolo, troppo spesso sottovalutati, a cui non si è ancora trovata una soluzione. E l’impatto che hanno sull’essere umano, che è in fondo così piccolo e fragile, è talvolta devastante.
Ma dov’è il confine tra normalità e pazzia? Esiste davvero? È così netto come pensiamo? La lavoratrice mette in dubbio, rovescia, pone delle domande. Quanti pregiudizi abbiamo? Quanto poco sappiamo delle malattie mentali? Perché la società sembra non fare altro che peggiorare la situazione dei più deboli?
Cos’è davvero giusto, e cos’è davvero sbagliato? Cos’è davvero “decente” e cosa è “indecente”? Chi siamo noi per deciderlo, per giudicare? Qual è il limite? Cos’è il morboso, cos’è l’amore, cos’è il sesso, cos’è una perversione?
La lavoratrice è un romanzo che seziona col bisturi la nostra società, quel groviglio di cattiveria, dolore, fatica, solitudine, delusione, abbandono, critica, precarietà e incertezza. Ma è anche un romanzo che esplora le possibilità della letteratura di indagare i recessi più profondi ed oscuri delle nostre menti e delle nostre vite.
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Scrivere è terapeutico. Scrivere di malattie mentali è doppiamente terapeutico, per chi scrive, e per chi legge. Le malattie mentali sono un argomento che ancora troppo spesso viene evitato, accennato, trattato in maniera generale, mai raccontato per quello che è: qualcosa di umano, intenso, doloroso, vitale, faticoso. Per questo motivo La lavoratrice può sembrare un pugno nello stomaco. Nulla viene taciuto, tutto viene raccontato così com’è, senza abbellimenti. Elvira Navarro scrive senza veli della precarietà dell’esistenza, di quel momento in cui tutti quanti, almeno una volta, ci siamo fermati e ci siamo detti “e adesso cosa ne faccio della mia vita? Cosa ci faccio qui? Cosa voglio veramente?”
«Pensai al mio psichiatra nuovo di zecca, e alla gente convinta che non servano a nulla ma che allo stesso tempo siano dei veggenti, capaci di interpretare espressioni, tentennamenti, omissioni, azioni fallite.»
Per la prima foto, copyright: Christin Hume su Unsplash.
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