La grande sciarada di Omero
Ulisse non è lui: questo il titolo e il perno del discorso romanzato dell’ultima opera di Giovanni Kezich, edita da Baldini+Castoldi nell’agosto del 2021. Un lungo e mai noioso narrare di 373 pagine dell’antropologo e archeologo che rilegge l’Odissea di Omero nella sua chiave enigmatica, come “la grande sciarada alle origini della coscienza”. Ora, l’Odissea è un vero e proprio cruciverba di alta difficoltà che cerca di tessere le gesta dell’eroe multiforme che forse, secondo l’interpretazione dello studioso, non sarebbe mai giunto a Itaca, che poi non sarebbe nemmeno Itaca, bensì Cefalonia.
Si rimane travolti da questa avventura romanzata, corredata di citazioni e profonde analisi filologiche e storiche, accompagnate dalle teorie di Butler, le interpretazioni di Dolce, le scuole di Oxford, con fonti tratte da Esiodo, Orazio, Ovidio… alla caccia delle malefatte di un eroe-antieroe, simulatore e dissimulatore, astuto e fedifrago, playboy irriducibile che naviga per dieci anni in mare aperto, affrontando tempeste e marosi.
Ma saranno poi dieci anni quelli del ritorno in patria? Si chiede lo studioso. È ovvio che questo è un dato mitologico funzionale alla glorificazione di un antieroe della peggior specie: quello del ratto del Palladio, della disputa delle armi di Achille, quello che abbandonò Filottete su un’isola sperduta per via della ferita purulenta… A che pro celebrarlo? Per tessere le lodi di una realtà marinaresca e colonialista che si era espansa lungo la costa del Mediterraneo, per stornare il dubbio che gravava sull’integrità morale di questa figura. Tanto dubbia la sua moralità che Dante lo colloca nell’Inferno tra i consiglieri fraudolenti, responsabile inoltre di aver superato le colonne d’Ercole per la sua voglia irrefrenabile di conoscenza. Peccato di hybris gli viene quindi ascritto dal Vate, peccato cui non si sottrasse mai per la sua frenesia di valicare i limiti umani, tanto da sfidare Poseidone, il dio del mare, accecandone il figlio Polifemo. Gli stessi compagni erano contaminati dalla sua indole tracotante, sì da uccidere i buoi del sole Iperione.
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Eroe-antieroe di molteplice lettura, apprezzato da Leopardi e Foscolo, che lo rese «bello di fama e di sventura» e che lo ha consegnato ai posteri con un’aura di sacralità, capace di tornare alla «petrosa Itaca» mentre al poeta il Fato concesse «un’illacrimata sepoltura».
Uomo dai molti volti che, con la costruzione della zattera e altre abilità di mano e di ingegno, anticipa l’uomo tecnologico moderno; piega a sé il mare, trasformandolo da thàlassa (mare infecondo) a pòntos (mare navigabile), ribelle per carattere, furiosamente eterosessuale, con donne ovunque, da Circe a Calipso e a tante altre meno note. Ma tante cose non tornano nell’Odissea: come fece, ad esempio, ad avere quattro figli da Calipso, pur rimanendo presso di lei un solo anno? Questa è una questione dibattuta, come altre che costellano la lettura dell’Odissea. Come fece a uccidere in un solo giorno cento proci, rimanendo lui illeso, considerando poi che una faretra contiene venti frecce? Sono solo alcune delle molte questioni sollevate dallo studioso, che con acribia critica si spinge in tutte le pieghe problematiche dell’opera.
Si fa poi riferimento alla nota questione omerica, arrivando a sostenere che la composizione dell’opera orale sia ascrivibile a una donna o a un circolo di donne, perché l’Odissea è il poema di un uomo e di infinite donne, e solo le donne sanno scandagliare la psicologia delle donne, sfatando così il mito vichiano che questa epopea sia il risultano della voce del popolo ai tempi arcaici. Vico, infatti, negava l’esistenza di Omero e attribuiva le opere a lui ascritte a una tradizione popolare. Tutte le questioni sono affrontate con appuntite armi filologiche e storiche, con puntuali citazioni dal mondo greco-latino.
Ulisse non è lui: questa la tesi di fondo. Sì, perché ad Itaca Ulisse non sarebbe mai tornato. La strage dei proci sarebbe avvenuta a opera di un killer prezzolato inviato da Telemaco, il figlio di Ulisse e Penelope. Non si spiegherebbe, tra l’altro, perché Odisseo, una volta tornato in patria, coronando il suo sogno di ricongiungersi alla famiglia, sarebbe dovuto presto ripartire. Invece, che riparta un killer inviato è più plausibile.
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Altra questione: che tipo di donna è Penelope? La tradizione ne fa una donna pura, ma per lo studioso è piuttosto una meretrice che se la spassava con i proci. Infatti, perché il portone della reggia di Odisseo sarebbe dovuto rimanere sempre aperto se non per far entrare gli amanti? Che ci voleva a chiudere la sera il portone quando i proci uscivano a bere e giocare? Questo dato sinceramente non mi convince: i proci che erano in tanti e turbolenti avrebbero potuto sfondare il portone agilmente. Quindi, la questione mi sembra oziosa. Mentre, in generale, ho molto apprezzato l’opera di Kezich, capace di trattare in modo amabilmente romanzato questioni spinose. Infatti, un’opera così ponderosa sull’Odissea potrebbe risultare noiosa. Invece, noiosa non è mai, per quell’andamento da romanzo che dicevo, ma anche per via di un linguaggio poetico. Non dimentichiamo, infatti, che lo studioso è anche famoso poeta. Un uomo eclettico che riunisce in sé tante abilità: da quelle filologiche a quelle archeologiche a quelle di romanziere e di poeta.
Quindi, pur dedicando duecento pagine alla dimostrazione che “Ulisse non è lui”, per la lettura dell’opera ho impiegato sei ore in un pomeriggio di pioggia, senza accorgermi che piovesse. Un’opera che consiglio a chiunque abbia un qualche interesse per la grecità, non necessariamente addetto ai lavori.
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