“La grande bellezza”: apparati umani
È uscito nelle sale il 21 maggio, e già molte, forse troppe, in alcuni casi inadeguate, parole sono state spese. Come per quasi ogni film di Paolo Sorrentino, anche per La grande bellezza le opinioni si sono raggrumate attorno a due grandi poli: da una parte quelli del “capolavoro assoluto e immortale”, dall’altra quelli di “ è un cialtrone, un impostore, un vanesio”.
Siccome crediamo nella validità della stringatezza, anche se la possibilità di sviscerare La grande bellezza ci alletta, e siamo sicuri che riporteremmo alla luce un film molto più preciso, quadrato, rigoroso di quello descritto da molti eminenti commentatori, forniremo quattro motivi, fra i molti possibili e rintracciabili, per dire che si tratta di un film importante e che rimarrà.
Primo motivo: la Roma tinteggiata da Sorrentino è qualcosa a metà tra la Berlino de Il cielo sopra Berlino e la “Zona” di Stalker di Tarkovskij. Le architetture sembrano fondersi coi corpi che le attraversano, e i personaggi abitano davvero le scene.
Secondo motivo: la prima inquadratura di Toni Servillo, alias Jep Gambardella, inquadratura che peraltro fa il paio con l’ultima, vale da sola tutto il film. E ci ricorda in un attimo che Servillo non è un caratterista, ma un interprete di tale profondità che all’uscita dalla sala Jep è diventato un nostro vecchio amico.
Terzo motivo: nella Grande bellezza si affollano le immagini e le suggestioni tanto di Fellini, quanto di Von Trier e Aronofsky, quelle di Scola e della commedia intelligente e profonda, e anche certo Lynch inquietante ed ellittico.
Quarto e ultimo motivo: una Serena Grandi così “sfatta”, che esce da un’enorme torta e sniffa di nascosto in cucina, aspettavamo da tanto di vederla.
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