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La fuga dalle proprie radici e il ritorno a se stessi. “Il giorno del Diavolo” di Andrew Michael Hurley

La fuga dalle proprie radici e il ritorno a se stessi. “Il giorno del Diavolo” di Andrew Michael HurleyLa fuga dalle proprie radici finisce, prima o poi, con un ritorno a casa, a se stessi. Tante volte si scappa dalle proprie origini, a volte è un allontanamento dalla nostra parte più oscura, altre è semplicemente la curiosità di conoscere l’ignoto. Talvolta è invece la strada che si decide di percorrere quando gli sconosciuti siamo proprio noi e compiamo scelte dettate dalla confusione interiore. Qualunque sia la motivazione, esiste un momento della vita in cui quelle stesse radici tornano ad affondare dentro di noi e ci attirano, spazzano via le ragioni che ci hanno spinti lontani e ci ricordano che non abbiamo mai smesso di avere bisogno di loro.

«Prima che morisse il Vecchio, avevo avuto un periodo d’insofferenza. Non ero particolarmente insoddisfatto di ciò che stavo facendo – nel complesso i ragazzi erano piacevoli e ansiosi di apprendere –, però mi ritrovavo a pensare più spesso del solito alle Endland. Le avevo lasciate quando ero appena più grande dei miei maturandi e […] mi rendevo conto che era stata una decisione che avevo preso quando non sapevo assolutamente niente della vita.»

 

A raccontarlo è lo stesso protagonista del romanzo di Andrew Michael Hurley, Il giorno del Diavolo (Bompiani, 2019, traduzione di Vincenzo Vega), un insegnante di una scuola maschile del Suffolk (Inghilterra), che anni prima ha abbandonato le sue terre natali, le Endland, lasciandosi alle spalle fantasmi, rancori ma anche antichi legami da ricostruire e tradizioni proprio connesse alla figura del Diavolo.

 

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Quei luoghi infatti sono lo scenario di una storia, tramandata di generazione in generazione, che narra di una tormenta di neve scatenata un secolo prima dal Diavolo. Quest’ultimo – secondo la leggenda – dopo aver assunto le sembianze di una pecora, vagò per le brughiere e le fattorie in quei giorni di autunno, impedendo agli abitanti del villaggio di uscire dalle loro abitazioni e condannandoli a morire di freddo, stenti e malattie. Durante quella tempesta, furono in tredici a perdere la vita.

Da quel momento il Maligno è diventato oggetto di altri racconti riportati dagli adulti ai bambini, ma non solo: attorno a questa figura e a quell’episodio, gli abitanti del piccolo centro di Underclough ripetono ogni anno un rito in suo onore, che prevede anche canti, una tavola imbandita con numerose pietanze da offrirgli e un ballo eseguito con gli occhi bendati da un individuo prescelto.

La fuga dalle proprie radici e il ritorno a se stessi. “Il giorno del Diavolo” di Andrew Michael Hurley

Una tradizione dai contorni noir inventata da uno degli avi del protagonista, John Pentecost. Orfano di madre, fin da piccolo cresce con un padre più preoccupato del suo gregge di pecore che di ciò che accade a suo figlio, che finisce invece per instaurare un rapporto molto stretto con suo nonno, da tutti soprannominato Il Vecchio. Ma quel legame viene interrotto dalla sua scelta di costruire il proprio futuro lontano dalla fattoria e dalle Endland, una decisione che l’anziano uomo vive apparentemente come un tradimento da parte di suo nipote e come una negazione delle sue origini.

«Era quello che volevo più di ogni altra cosa. Volevo avere mani diverse da quelle degli altri bambini del villaggio. Volevo dita senza unghie, calli lungo la linea del cuore, un pollice che schioccasse come una pistola giocattolo quando lo muovevo, ossa che raccontassero storie.»

 

Malgrado le sue visite annuali in occasione di avvenimenti legati proprio all’allevamento delle pecore – la Figliatura a Pasqua, il Raccolto e il Recupero in estate «quando gli animali vengono portati giù dalla brughiera»– lo strappo tra i due non sembra ricomporsi e quella frattura rimane insanabile per sempre a causa della scomparsa del nonno.

Il funerale del capofamiglia offre la possibilità allo stesso John di far ritorno nella casa in cui è cresciuto, di rispondere al richiamo delle sue radici che da tempo avverte crescere dentro di sé e che si è fatto ancora più potente proprio in concomitanza con il lutto: la perdita di quell’uomo, figura centrale della sua infanzia e della sua adolescenza, lo induce a sentire il peso della responsabilità di garantire continuità a tutto ciò che la sua famiglia ha costruito fino a quel momento.

«Ed era quello il dono ricevuto da ogni generazione sin dai tempi di Joe Pentecost: l’opportunità di vivere con le nostre forze, la libertà di non dover ballare appesi ai fili manovrati da qualcun altro. Ma nelle Endland un allevatore era sempre e soltanto un custode. Nulla apparteneva mai a nessuno, tutto era sempre in procinto di essere tramandato. È così anche adesso, dico ad Adam. Le Endland sono sempre pericolanti, e chi viene dopo ha il dovere di tenerle in piedi. Qui nessuno spende soldi in assicurazioni: le nostre polizze sono i figli.»

 

Inoltre quella morte rappresenta la giusta occasione per condurre nelle Endland sua moglie Kat, incinta del primo figlio. La donna riceve un’accoglienza ostile e diffidente dalla maggior parte dei personaggi che ruotano attorno alla fattoria Pentecost: Tom, il suocero, un uomo freddo e indifferente, almeno in apparenza, al bene del figlio; Laurel e Bill, una coppia sopraffatta dall’amore per il figlio Jeff, uscito da poco di prigione e sul cui nuovo lavoro pesano le maldicenze della gente; Liz, sua moglie, che nega a se stessa il disagio di sua figlia ed è incapace di colmare il vuoto creato dall’assenza della figura paterna. Le uniche in cui invece Kat sembra trovare sostegno sono Angela, madre di Liz, che si mostra comprensiva e accomodante nei confronti della “straniera”; e la giovane Grace, nipote di Angela, una ragazzina in attesa perenne di suo padre e che, da una parte, dà segni di aggressività, dall’altra appare depositaria di un intuito troppo arguto per la sua età.

Alla cerimonia funebre fanno seguito prima degli episodi di violenza perpetrati contro gli animali, poi il rito del Giorno del Diavolo, tutti momenti che scatenano discussioni e tensioni sia all’interno del nucleo familiare allargato di John, sia con alcuni membri della piccola comunità di Underclough. Parallelamente a ciò, in quei giorni l’uomo ripercorre alcuni avvenimenti della sua infanzia e adolescenza, periodi entrambi segnati dal bullismo e perfino dalla morte accidentale di un coetaneo

I ricordi, uniti ai confronti con il padre e con sua moglie Kat, che si oppongono alla decisione di John di trasferirsi definitivamente nella fattoria di origine, fanno emergere il suo lato oscuro e quello di ogni singolo personaggio, portando alle rivelazioni di verità macabre, appartenenti non solo al passato, ma anche al presente.

Queste scoperte costituiscono l’interrogativo che sorge nel lettore alla fine del romanzo, quando si domanda se il Diavolo si nasconda solo dietro a una malattia, a una morte accidentale, a un verme che attacca gli animali o se invece possa assumere le sembianze di individui apparentemente senza macchie, la cui vita è legata a quella degli animali, alla Natura e all’avvicendarsi delle stagioni.

La fuga dalle proprie radici e il ritorno a se stessi. “Il giorno del Diavolo” di Andrew Michael Hurley

Con passaggi che incutono angoscia, mescolando il genere fantastico a quello horror, il ritmo risulta lento e la narrazione prolissa, tanto da far crescere il desiderio di abbandonare la lettura. Né le descrizioni pittoresche dei paesaggi che rendono omaggio alla vita bucolica, né le atmosfere tenebrose create dai riti – seppur meriti attenzione, per la sua capacità di provocare qualche brivido, la parte relativa alla tradizione del Giorno del Diavolo – bastano a conferire sostanza all’intera struttura del racconto, che non convince pienamente. Ciò è vero sia in relazione alla storia stessa, troppo incentrata, anche a causa della presenza di dettagli inutili ed eccessivi, sulla nascita dei villaggi in quelle terre e sulle loro tradizioni, nonché sulle fasi dell’allevamento delle pecore; e sia in rapporto al messaggio sottinteso dell’intero libro che, dopo trecentoquarantadue pagine, rimane poco chiaro e pieno di interrogativi.

Di certo è da riconoscere all’autore il merito di aver valorizzato i rapporti che si creano tra padre e figlio, tra nonno e nipote, tra figlia e padre, andando al di là dello stereotipo che vede nella figura materna il perno di questo tipo di legame. Ma malgrado l’utilizzo di un linguaggio mai ricercato, che ben rispecchia la semplicità dei personaggi e dei luoghi, il racconto resta monotono, anche per la presenza di continue regressioni, inserite in malo modo nell’intero impianto narrativo, al punto da generare un solo effetto: disorientano il lettore e disturbano la sua curiosità. Nemmeno i personaggi suscitano un particolare interesse, né empatia, al contrario, ognuno di loro si rende in qualche modo “colpevole” di gesti che sporcano la bellezza dei rapporti familiari accennati in precedenza.

 

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E in questo caso il richiamo delle radici consiste in un ritorno a se stessi, ma alla propria parte più oscura, camuffata da buone intenzioni e da case del mulino bianco, tra le cui mura invece il Diavolo ha lasciato le sue impronte.


Per la prima foto, copyright: Zach Reinersu Unsplash.

Per la terza foto, la fonte è qui.

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