La fotografia è memoria?
[Articolo pubblicato nella Webzine Sul Romanzo n. 4/2013, La forza della memoria]
La fotografia è il punto d’arrivo di una ricerca umana plurimillenaria per riuscire a riprodurre il vero il più fedelmente possibile: ciò che, fino a quel momento, era ottenuto solo grazie al lungo lavoro di pittori e disegnatori diventa realizzabile anche da persone incapaci di disegnare e in tempi molto più brevi, nonostante le ore di esposizione necessarie per realizzare i primi dagherrotipi.
Trattandosi del primo documento iconografico prodotto da una macchina, si tende a identificare la sua meccanicità con una presunta neutralità, mentre il fotografo non è visto come un artista, che offre la propria interpretazione del mondo, ma come l’utilizzatore di un procedimento standardizzato e impersonale: non per nulla, il meccanismo base di ogni apparecchio fotografico è stato chiamato obiettivo, come artefice di una riproduzione obiettiva della realtà. A questa presunta neutralità dell’immagine fotografica si aggiunge la sua democraticità. Se, in passato, solo i ricchi e i potenti erano in grado di farsi ritrarre dai pittori, grazie alla rapida diffusione degli studi fotografici la possibilità di avere immagini della propria vita cessa di essere un privilegio per pochi, estendendosi fino alla media e piccola borghesia.
Il ritratto resta a lungo il genere fotografico più diffuso, perché quasi tutti vogliono vivere l’emozione di farsi immortalare da un fotografo, in genere in occasione delle tappe salienti della vita: la nascita, la Prima Comunione e la Cresima, il matrimonio, senza dimenticare le immagini collettive eseguite nelle scuole, sui luoghi di lavoro o, per gli uomini, durante il servizio militare. Nell’arco di pochi decenni, presso tutte le famiglie si possono trovare immagini dei suoi membri, ritratti a diverse età, che vanno a costituire un archivio della memoria collettiva: ognuno può conservare una traccia dei propri cambiamenti, mentre si apre la possibilità di mostrare alle ultime generazioni il volto di parenti morti prima della loro nascita, o l’aspetto giovanile di persone conosciute già anziane.
Fin dal 1888, anno in cui la pellicola avvolgibile inizia a sostituire le lastre, gli apparecchi diventano molto più maneggevoli ed economici, aumentando rapidamente la loro diffusione, e agli statici ritratti dei momenti solenni si affiancano le fotografie istantanee, scattate anche nel corso di viaggi e vacanze, di cui diventa più facile conservare a lungo il ricordo.
L’equazione fotografia = memoria sembra, quindi, affermarsi fin dall’inizio, tuttavia non sono state poche le obiezioni sollevate da più parti nei suoi confronti.
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I primi a mostrarsi scettici nei confronti del valore documentario della fotografia sono stati proprio gli storici, categoria che si potrebbe considerare particolarmente interessata a farne un ampio uso, poiché per ricostruire il passato si è sempre ricorso
alle immagini: basti pensare all’importanza delle pitture rupestri e, in seguito, degli affreschi e dei quadri, da cui è stato possibile apprendere molto riguardo alla vita delle epoche passate.
Gli storici, però, non si limitano ad acquisire passivamente queste fonti, ma le sottopongono a un lavoro d’interpretazione, che parte, ad esempio, da un banale accertamento della loro autenticità. Già da questo primo esame, si può stabilire che molte fotografie di avvenimenti, soprattutto se realizzate nel XIX secolo, non possono essere considerate vere fonti storiche. Non potendo eseguire scatti veloci e ravvicinati, i primi apparecchi potevano fissare solo scene del tutto statiche, per cui le immagini che ci sono pervenute sono state spesso scattate dopo un evento e non durante il suo svolgimento, come nel caso dei campi di battaglia della Guerra Civile americana, che inquadrano morti e feriti, ma non i combattenti in azione.
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