La forza della bellezza. “Antropologia del turchese”di Ellen Meloy
Nel romanzo L’idiota di Fëdor Dostoevskij il principe Myskin afferma: «La bellezza salverà il mondo», una frase spesso citata da tanti, ma il cui significato è tuttavia ambiguo. Cosa intendeva far dire lo scrittore russo al suo principe idiota? In che senso la bellezza salverà il mondo? In russo la parola miur ha due significati: mondo e pace. Il mondo/miur diventerà quindi la pace/miur? È la bellezza che deve ricomporre in un’unità armonica il caos della realtà?
Cito questa frase non a caso. Se c’è una definizione che si può dare del 2020 è quella di essere stato surreale. La pandemia ha fatto comprendere come l’uomo, che da sempre si sente padrone indiscusso del mondo, sia in realtà impotente dinanzi al verificarsi di eventi nefasti. Mentre per mesi siamo stati rinchiusi nelle nostre case lamentandoci di un lockdown che aveva come scopo quello di preservare la salute nostra e dei nostri cari, abbiamo di contro assistito a immagini di una natura meravigliosa che lentamente si è riappropriata dei propri spazi e della propria bellezza/pace. L’uomo si è quindi ritrovato a essere lui sottomesso al mondo/natura, mentre la natura prendendo le redini in mano ha iniziato a salvarsi da sola.
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Antropologia del turchese. Riflessioni su deserto, mare, pietra e cielo (Edizioni Black Coffee, traduzione di Sara Reggiani) di Ellen Meloy (scrittrice naturalista scomparsa prematuramente un anno dopo essere stata finalista per questo libro al Premio Pulitzer 2003) è una raccolta di saggi, a metà tra diario e scritti di carattere naturalistico, che esplorano il rapporto spirituale, emotivo e biologico tra l’uomo e i colori e il modo in cui questi riescono da sempre, senza che noi ne abbiamo piena consapevolezza, a plasmare l’umanità.
Nel corso della nostra vita è capitato a tutti di recarci in determinati luoghi e di avvertire dentro di noi un attaccamento quasi viscerale a un determinato posto, come se fossimo già stati precedentemente lì, e quei luoghi ci richiamassero e attirassero tanto da farceli definire casa. Secondo Meloy tale legame non è casuale.
Inoltrandosi da sola in un mondo di bellezza e violenza con lo scopo di capire e cercare di recuperare la connessione sensoriale tra l’io e l’ambiente che ci circonda, viaggiando dalle piscine della California al deserto di Mojave, dai Canyon dello Utah alle coste dello Yucatan, fino a immergersi nelle limpide acque che costeggiano le Bahamas, Meloy riesce a diventare un tutt’uno con l’ambiente esplorato. Mimetizzandosi con la bellezza della natura è in grado di trovare la propria pace interiore, ma soprattutto comprendere che, sono le forme e le combinazioni dei colori a suscitare l’attaccamento a un determinato paesaggio. «A buon diritto è stato detto che il colore è il fondamento primario del luogo». Sono i colori a dialogare con il nostro patrimonio genetico risvegliando un legame con l’ambiente.
Leggere questo libro e osservare il mondo attraverso la lente color turchese di Ellen Meloy è davvero un’esperienza unica. La turchese è «la pietra del deserto. Il colore del desiderio doloroso […] non è un minerale comune, ma ovunque si trova evidenza del fatto che, fin da tempi ormai sepolti in profondità nella storia, i popoli hanno tentato di estrarla dal suolo per impadronirsi della sua bellezza». I nobili accumulavano infatti questa pietra, i coltivatori la indossavano, mentre i religiosi ne facevano degli amuleti sui quali incidevano versi del Corano.
La turchese «è la pietra che acuisce la vista, dicevano i persiani, l’equivalente desertico di un giubbotto antiproiettile contro il dolore o le forze maligne. E’ acqua, dicevano gli Zuini. È nutrimento per il cuore, sostenevano gli Atzechi». Nel Sudovest americano o in Medio Oriente «la turchese è l’amuleto del nomade; è vettore di cultura e mito».
Per Meloy la turchese è istinto, «tutto ciò che una persona può sperare di mettere in ogni singolo giorno: attenzione alla luce, slancio verso la bellezza che sfugge». È la prova inconfutabile «della prossimità del cuore alla bellezza. Le sue complesse tonalità di azzurro, come la luce stessa del deserto, evocano un’idea di ricchezza inestimabile» che oscurano anche i bisogni più importanti come mangiare e respirare.
Oggi tuttavia viviamo in una società in cui le sensazioni sembrano aver perso la propria importanza. Se anziché sfruttare la natura imparassimo a prendercene cura potremmo riuscire a far parte di un universo integrante. Ed è esattamente questo il quesito lanciato da Meloy in questi saggi: vogliamo vivere sulla terra da distruggitori o intendiamo piuttosto contribuire alla sua sopravvivenza?
«Che cosa so? Qual è il mio posto nell’universo? Cosa mi serve per avere tutto? Qual è il prezzo da pagare per abitare una determinata geografia, accorciare la distanza tra occhio e bellezza, trasformare il mondo visibile in istinto?»
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Con questo scritto Meloy mostra territori di grande bellezza e vulnerabilità invitando l’uomo a frenare il proprio impulso di conquistatore e distruttore della natura e a prendersi piuttosto cura del proprio habitat in modo che la bellezza potrà davvero riuscire a salvare il mondo.
Per la prima foto, copyright: Paweł Czerwiński su Unsplash.
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