La fine dell’Unione Sovietica raccontata da uno scrittore ungherese
È uscito in Italia con la casa editrice Voland il romanzo Victory Park di Aleksej Nikitin, scrittore ucraino di lingua russa, a cura di Marco Puleri insieme a Vale Rossi con la traduzione di Laura Pagliara.
Una prosa complessa, quella di Nikitin, che può essere definita come un caleidoscopico sincretismo culturale e linguistico tra la storia di matrice russa e quella ucraina. Tale peculiarità gli consente di essere uno scrittore apprezzato non solo in patria ma anche in Occidente dove viene tradotto in numerose lingue.
Tutta la produzione letteraria di Nikitin è ambientata a Kiev, sua città natale. Questa è una caratteristica tipica degli autori di Kiev, mettere al centro topografico della narrazione e dell’identità letteraria la cultura delle regioni orientali dell'Ucraina. L'autore ripercorre il lasso di tempo che intercorre tra gli ultimi anni di vita dell'Unione Sovietica fino alla contemporaneità. Il suo sguardo è puntato in particolare sul 1984, anno cruciale per comprendere la remissività dell'uomo di fronte agli imminenti e radicali mutamenti della storia e per tracciare un affresco delle logiche della vita quotidiana e dei cambiamenti socio-culturali delle generazioni di passaggio tra il sistema sovietico e quello post sovietico. Il 1984 è stato l'ultimo anno sovietico non toccato dalla perestrojka: anni in cui tutti sapevano ciò che stava per accadere ma nessuno sapeva come mutarne il destino.
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Victory Park è un parco posto sulla riva sinistra del fiume Dnepr, è il luogo fulcro della transizione da un’era all’altra, dalla giovinezza alla maturità, dal mondo di “prima” e quello di “dopo”. Il romanzo viaggia sempre a cavallo tra la tragedia e la commedia e mostra, tramite gli occhi dei protagonisti le fragilità e la malinconia dell'Ucraina moderna.
Gli alberi sono in fiore al parco della Vittoria, «figliastro della storia come i suoi protagonisti» e, tra le fronde, i veterani della guerra in Afghanistan spacciano droga e aggiustano le giostre dei bambini mentre gli speculatori si rinfrescano al chiosco con la polizia corrotta.
«Erano gli ultimi giorni di primavera. L'estate si frangeva sulla città come un'ondata soffocante e densa. E Alabama non riusciva a staccare neppure una settimana per andare al mare. Per lui il parco della Vittoria si era trasformato in una giungla, le liane lo avevano avvolto in una stratta mortale, bloccandolo al tavolino del Mughetto come a una palma.»
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Tutto convive al Victory Park dove i veri protagonisti del romanzo sono i frequentatori del parco che incarnano e narrano tradizioni popolari, guerre vinte e sconfitte laceranti che hanno caratterizzato la storia dell'URSS. Nonostante l'atteggiamento apparentemente remissivo, perdere non è bene accetto:
«Di tutte le idiozie accumulate dall'umanità civilizzata, la convinzione che bisogna saper perdere e, per giunta, con stile, era quella che più faceva imbestialire Buben. La odiava di un odio gelido e mortale. Accettava solo la vittoria e si batteva fino alla fine per ottenerla. Una bella sconfitta è solo una stupida posa teatrale. Dà punti extra al vincitore e toglie le ultime chance al vinto....
Bisogna saper vincere, punto e basta; con stile o senza, non ha nessuna importanza; solo vincere, sottomettere il perdente, spezzargli la volontà, cancellare e sopprimere tutto ciò che ha fatto. Solo una vittoria così può ritenersi definitiva, le altre non hanno senso, e hanno un altro nome, si chiamano vantaggio provvisorio.»
Nel parco incontriamo in particolare lo scontro tra due generazioni della storia di Kiev, quella del quartiere Ocerty, villaggio di pescatori tradizionale della riva sinistra del fiume, e quella del quartiere Komsomol di stampo sovietico, dove vivono i giovani studenti e gli operai russi. A rendere tutti simili è l'arte di imparare a barcamenarsi tra le regole troppo rigide della vita sovietica. Il parco diviene quindi neutro, «terra di nessuno», una metafora del mondo, il luogo che separa la futura modernità sovietica dallo scorrere del tempo.
In una delle tre parti del romanzo la trama si fa più violenta. Difatti un omicidio mette in discussione l'imparzialità del parco e ancora una volta ci si trova di fronte all'impossibilità di cambiare il corso degli eventi.
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Interessante in Niktin come l'analisi storica del mondo tardo sovietico divenga così palpabile e comprensibile proprio perché vista e narrata dalle parole della gente comune, consapevole di non poter vivere in quel modo ma impossibilitati ad apportare un qualsiasi cambiamento, anzi abituati a «vivere senz'acqua, nutrirsi di spine e approfittare delle rare oasi». I protagonisti sono consapevoli e impotenti rispetto alla «macchia del comunismo»:
«Le macchie del comunismo sono l'esatto analogo delle macchie solari. Nascono dalla perturbazione delle linee di forza. Per esempio, la linea Tokyo-Londra è tesa al limite. Le contraddizioni del modello di vita capitalistico lacerano il nostro pianeta ma, nel concreto, chi fa a pezzi questa linea di forza sono da un lato i militaristi giapponesi e dall'altro i colonialisti britannici.»
Victory Park parte come un percorso in una terra fisica ma diviene immediatamente viaggio esistenziale dove però ogni singolo passo è scandito dalla più vera realtà: persone che vivono di scorribande diurne e notturne, bagni nel fiume, sogni di gloria, esperienze erotiche di formazione e sopravvivenza, case nei cantieri tutti simboli di un’Unione Sovietica che in breve tempo si sarebbe sgretolata sul nascere senza che i cantieri siano mai stati ultimati.
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La postfazione al testo di Marco Puleri mette in luce i punti salienti della poetica e delle ragioni politiche e sociali di Nikitin ed evidenzia come le sue opere abbiano ricevuto riconoscimenti da parte della critica russa e di come questo scrittore rappresenti «una delle voci più importanti del contesto intellettuale russofono dell'Ucraina contemporanea».
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