La festa del lavoro è morta: 5 ragioni
La festa del lavoro è morta? È giusto dirlo? Ci son cinque ragioni che potrebbero portarci a dire di sì, e nello stesso tempo a dir di no. Ragioni ribaltabili come i sedili di una vecchia berlina.
La prima è che viviamo in una società dove il lavoro, quello continuo, è residuale, s’è precarizzato, frantumato e allineato alla liquidità di tutto il resto. C’è poco da festeggiare, allora. Ma è anche vero che se in Occidente la situazione è questa, in Oriente non è proprio così: dunque ci son posti dove il lavoro è ancora al centro della fatica di vivere.
La seconda ragione è che il lavoro è un retaggio di una società divisa in classi, in strati, in fette disomogenee di popolazione. Effettivamente, essendo ormai la società divisa tra chi ha (pochissimi) e chi non avrà mai (tutti gli altri), il lavoro perde di senso, si riduce a un’occupazione oziosa (per i primi) o schiavistica (per tutti gli altri), dunque non ha senso festeggiarlo. Ma è anche vero che vi sono società nelle quali le classi resistono – come in Iran – e provano perfino a darsi una vocazione politica e un nazionalismo, come in Turchia.
La terza ragione è che il lavoro è sempre meno retribuito, quindi conviene fare impresa se si ha l’obiettivo della rendita, e non del reddito. Quindi tutti imprenditori, nessun lavoratore. Messa in questi termini, la festa non ha senso: anche perché non si festeggia col padrone, e un imprenditore è un padrone per definizione. Ma se l’impresa è individuale, se è una partita Iva, se è un singolo che produce servizi, contenuti, simboli? Le cose si rivoltano, perché lì c’è lavoro, eccome, ma non lo paga nessuno!
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La quarta ragione è che s’è scoperto che il lavoro arricchisce chi non lavora, quindi ha più senso mettere una bella pietra tombale sulla festa del lavoro e farla finita con la fatica. Solo così, magari, si riequilibrano i rapporti di forza e si cambia il mondo. È vero, ma se poi chi s’è arricchito decide di mettersi a lavorare, che si fa? Bella domanda, perché la storia non fa menzione di un caso simile, ma nemmeno di una società senza lavoro.
La quinta, più metafisica e credibile, è che in una società che smaterializza tutto, perfino la Storia, il lavoro non è più il requisito per dare sostanza alla vita, ma una specie di insopportabile orpello. A questa ragione non so cosa obiettare, perché a lungo andare sta sparendo un certo tipo di lavoro, ma non se ne vede un altro all’orizzonte.
Allora, spiritualizziamo il lavoro e rendiamo la sua festa una specie di rito o di giornata della memoria. Ops! Mio Dio, ma è già così… E la festa del lavoro è morta!
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