La ferocia della fatica – Gert, lo schiavo pendolare
Si possono dimostrare quarant’anni pur avendone trenta? Sì, se da dieci anni fai il bracciante al freddo e al caldo, esposto alle intemperie, girando l’Italia come un pacco postale condotto da una raccolta all’altra, al servizio del sistema agricolo nazionale. Adesso è in Piemonte, per riposare dopo la vendemmia nell’astigiano, ma tra poche settimane si sposterà in Emilia per la raccolta degli ortaggi nelle serre e anche lì…
«Vivo nello schifo. Mi danno una casa fredda, perché tanto, dicono, tra poco c’è la primavera. Fattela tu la primavera padana a zero gradi e la nebbia tutto il tempo. Io sono venuto in Italia perché l’Italia era un grande Paese, per noi albanesi. Ma l’Italia è diventata un posto invivibile, dove non si riesce a lavorare»
Siamo a Saluzzo, circondati dalle alpi non ancora del tutto innevate. Gert ha trent’anni, ma il lavoro in campagna lo fa invecchiare precocemente: il volto rugoso, le mani incallite, la voce grossa e stanca.
«Quando sono arrivato c’era più rispetto per noi. Avevo una casa, e il padrone mi faceva un contratto tutto l’anno. Aveva campi in tutta Italia, allora io giravo. Così ho imparato a fare tutto, so pure potare… Ma ora… Tutto diverso! Prima parlavo col padrone, adesso devo rivolgermi al caporale. Io?! Capisci? Dopo che sono stato qua dieci anni, ora devo parlare col caporale che non sta in Italia nemmeno da tre anni»
«Da dove viene, il caporale?»
«Dal mio Paese, ma lui è un criminale. È venuto qui per far soldi, non per lavorare. Quando ha capito che il lavoro era duro, ha parlato con il padrone e gli ha detto che poteva fargli risparmiare un bel po’ di euro. Il padrone ha detto sì e allora è venuto da noi con un coltello…»
Gert si commuove. Lui non è abituato alla violenza, al sopruso. Si è piegato alla legge del più forte: qui, nei campi, dove nessuno vigila e la corruzione tra gli ispettori del lavoro è diffusa, una brava persona rischia di soccombere se non sta al gioco. Gert ha accettato di essere taglieggiato dal caporale, rimettendoci parte del salario e diventando una specie di pendolare delle raccolte.
«Ora sono costretto a stare fuori otto mesi. Otto mesi! Ti rendi conto? E dove sono i sindacati? Prima ero libero, ora devo vivere dove dice il caporale, che ormai è uno troppo potente per dirgli di no. Lui lavora per un sacco di padroni. Ma i padroni che fanno? Dormono? A quelli interessa solo di avere la raccolta pronta e il campo vuoto»
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Il regime è quello del pieno sfruttamento: frutta in pronta consegna affinché possa diventare vino, conserva, marmellata, o possa riempire le tavole di mezza Europa. Dentro questo regime il caporale alza cifre da paura e i padroni son contenti perché possono così onorare i tempi ed i contratti stipulati con i grossisti.
«Ma non guadagni di più, ora che giri l’Italia?»
«No! Molto meno, perché ogni viaggio me lo devo pagare io. Tra poco ci rimetterò, pure. Ma solo così tengo il posto e una casa, se no mi caccia, quel maiale»
La tendenza è proprio questa: azzerare il costo del lavoro e scaricare i costi dei servizi sui lavoratori, non più sull’impresa. Questo rende intollerabile il lavoro nella durata, che si allunga oltre ogni tempo giustificabile, e nel salario, che si accorcia fino oltrepassare lo zero assoluto.
«Perché non cambi lavoro?»
«Perché sono bravo, mi piace. Perché non so fare un’altra cosa e se dico a casa che dopo dieci anni mi hanno mandato via… Non lo possono capire. Ma io non sono uno schiavo. Mi fa male la schiena, ho un’ernia. Non posso vivere solo al freddo o sotto il sole come una bestia!»
Annuisco e penso che, come lui, tanti ormai non ce la fanno più: stranieri e italiani. L’Italia sta mostrando il suo volto più feroce, per questo rischia di veder collassato il suo sistema di impresa: appiattito sulla negazione del diritto, a vantaggio di un profitto ormai del tutto fuori luogo.
«Ti saluto, amico mio», mi dice, alzandosi.
Gert va via, assorbito dalle strade di questo ricco comune piemontese. Nella sua andatura i segni visibili del superlavoro. Nella sua testa un indomito quanto inappagato sentimento di giustizia. Addio, amico mio.
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