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La felicità del vivere secondo natura, la letteratura di Elio Vittorini

La felicità del vivere secondo natura, la letteratura di Elio VittoriniCi sono letture che hanno lasciato il segno nel giovane Elio Vittorini. Spesso ha ricordato, come una rivelazione, la sua scoperta del Robinson Crusoe, o di Le mille e una notte. Erano libri, questi, che alimentavano il suo spirito avventuroso, quel suo senso del fantastico comunque attento agli aspetti più brutali e concreti della realtà, ma che costituivano una boccata d’aria fresca nell’ambiente asfittico e isolato in cui era cresciuto, imprimendo un marchio indelebile anche nell’età matura. Era nato a Siracusa il 23 luglio del 1908 e aveva trascorso una buona fetta della sua infanzia nei paesetti della campagna sicula, immerso in una natura avversa, in una società per certi aspetti ancora feudale, dove regnavano la disperazione e la miseria. I genitori lo avevano costretto a iscriversi a una scuola tecnica, ma era forte in lui il desiderio di evadere. Non una fuga dell’immaginazione, ma una fuga concreta: si allontana da casa in più di un’occasione. Alla quarta fuga, ormai diciottenne, non fa più ritorno e si stabilisce in Friuli, lavorando come contabile in una ditta di costruzioni.

C’è, nel Vittorini degli esordi, questo sentimento di una pienezza di vita in grado di trasfigurare ogni esperienza in una piccola mitologia personale, un modo di vita ingenuo e carico di una naturale istintività ed entusiasmo. Sono questi, ancora in germe, gli elementi della sua ricerca di uomo e di autore. Inizia a scrivere negli anni friulani, nel 1927, in un particolare periodo storico in cui la cultura italiana subisce una certa involuzione. Il regime fascista si insedia al potere, mentre l’Europa vive la grande stagione delle avanguardie: le opere di Joyce, di Pound e di Eliot, di Woolf e del gruppo di Bloomsbury, di Kafka e dei surrealisti. Nel Belpaese l’attività letteraria si consuma invece in retrive e “provinciali” polemiche tra il gruppo riunitosi intorno alla rivista «Novecento», che ha in Massimo Bontempelli uno dei suoi maggiori esponenti, e gli “Strapaesani” di Curzio Malaparte. I primi si schierano a favore di una narrativa fantastica, capace di novità e situazioni impreviste ma comunque nel solco di un realismo magico che trasfigura e rivela insieme; Malaparte e soci sono, invece, per una letteratura innervata di un solido realismo, collegata alle tradizioni del regionalismo italiano. Giusto per farsi un’idea del clima culturale di quegli anni è bene citare anche una tendenza reazionaria, classicista e restauratrice di valori di ordine formale, di limpidezza e di disciplina, diffusa negli anni prima dai protagonisti di «La Ronda» (Cardarelli, Bacchelli, Cecchi), mentre cedono il passo quegli autori più veri e vitali come Clemente Rebora, Dino Campana e Scipio Slataper, riuniti nelle colonne de «La Voce».

La felicità del vivere secondo natura, la letteratura di Elio Vittorini

Le prime prove di Vittorini mostrano, sul piano stilistico, un’adesione al bozzettismo un po’ convenzionale e folcloristico degli “Strapaesani”. Sul piano dei contenuti, l’ideologia è ancora in larga parte monopolizzata dalla mentalità dominante, legata agli ambienti del regime. Sono invece evidenti, nel suo primo libro di racconti, Piccola borghesia (1931, ristampato da Mondadori nel 1953), le influenze di un ristretto gruppo di scrittori raccolti a Firenze intorno alla rivista «Solaria», responsabili in seguito della rottura di quell’isolamento della cultura italiana e dell’apertura alle più significative e avanzate correnti della letteratura europea. La rivista nasce a Firenze nel 1926 e chiuderà i battenti nel 1934. Vi collaborano personaggi come Sergio Solmi, Giacomo Debenedetti e Vasco Pratolini. Il merito loro sarà quello di indicare in Gadda, in Moravia e in Svevo i soli autori in grado di superare i limiti del provincialismo rondesco e novecentesco. I personaggi di Piccola borghesia sono tratti da ambienti piccolo borghesi e osservati in momenti ordinari della loro esistenza; manca, in ogni racconto, l’intenzione di avvincere il lettore con l’aspetto esteriore delle situazioni. Non succede nulla, l’attenzione è calamitata sulla realtà psicologica del personaggio. I modelli di riferimento sono il Proust della Recherche, l’Ulisse joyciano per l’utilizzo della tecnica del flusso di coscienza e Le grand Meaulnes (1913) di Alain-Fournier, romanzo di rievocazione dell’infanzia, vivido di immagini e metafore che rispecchiano quella realtà psicologica che Vittorini cerca di rappresentare nella sua prima silloge di racconti.

La felicità del vivere secondo natura, la letteratura di Elio Vittorini

Nel diffondersi di una letteratura asservita al regime, «Solaria» rimane una delle poche realtà sincere. La censura e le repressioni la inducono, però, ad accentuare la sua vena autobiografica, psicologica e intimista – sul solco di tanta letteratura straniera. Negli anni di attività della rivista Vittorini è Firenze, dove lavora come correttore di bozze in un quotidiano. Durante i turni di notte nella sala dei linotipisti, un amico operaio che aveva lavorato all’estero inizia a dargli i primi rudimenti di inglese. I due cominciano a studiare su un testo speciale: il Robinson Crusoe, per l’appunto, traducendolo parola per parola. A contatto con la realtà del lavoro, della fatica e della lingua inglese nasce uno degli interessi fondamentali per il nostro: la narrativa americana, a cui si dedica con passione, anche come traduttore, iniziando con un romanzo di Lawrence. Le traduzioni, per qualche tempo, gli danno da vivere, quando è costretto a lasciare il giornale a causa di un’intossicazione da piombo. Nei riguardi del fascismo la posizione di Vittorini è quella di un distacco critico che non si accompagna a una precisa coscienza politica. Si sente inquieto e prigioniero, con Montale può dire di conoscere solo «ciò che non siamo / ciò che non vogliamo». Quella di Vittorini è un’ansia d’azione che non trova soddisfacimento: nel 1936, quando scoppia il conflitto in Spagna, progetta con l’amico Pratolini di raggiungere i repubblicani spagnoli contro il dittatore Franco. È dello stesso anno la pubblicazione presso l’editore Parenti di Nei Morlacchi – Viaggio in Sardegna, poi ristampato nel 1952 da Mondadori col titolo Sardegna come un’infanzia. Si tratta di una silloge di brevi prose e di una “prosa lirica” (Nei Morlacchi, appunto), rievocazione di un’età felice e remota, dominata da una figura femminile, nel fondale del mare della Dalmazia. L’opera, pur minore, è un’anticipazione dei modi e delle tecniche del Vittorini più maturo, e risente di stilemi propri del Surrealismo e dell’Ermetismo.

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Nel frattempo, nel 1939, Vittorini si è spostato a Milano, dove riceve un incarico editoriale da Bompiani, per il quale dirige la collana «La Corona» e cura l’antologia Americana, summa di riferimento che ha il pregio di sdoganare in Italia gli scrittori statunitensi. A causa della censura fascista l’antologia venne pubblicata solo nel 1942 e con tutte le note del curatore soppresse (l’edizione integrale vedrà la luce solo nel 1968). In questi anni viene anche pubblicato a puntate su «Letteratura» il romanzo Conversazione in Sicilia, forse il libro migliore di Vittorini. Il testo appare da subito molto impegnativo per quanto riguarda lo stile. Vengono ripresi alcuni dei “miti” e dei temi cari all’autore, come la bontà primigenia, raggiunta attraverso le prove della vita e la sofferenza, la felicità del vivere secondo natura e il ritmo fantastico della narrazione. La tensione del romanzo è retta da immagini simboliche e allusive. La vicenda è quella di Silvestro, un tipografo siciliano che vive a Milano e si consuma in un cupo sentimento di impotenza a far presa sulla realtà. Una lettera del padre gli fa prendere d’impulso un treno per la Sicilia, nella percezione profonda e in parte inconscia di qualcosa che lo lega al suo passato. «[…] un piffero suonava in me e smuoveva in me topi e topi che non erano precisamente ricordi. Non erano che topi, scuri, informi, trecentosessantacinque e trecentosessantacinque, topi scuri dei miei anni, ma solo dei miei anni in Sicilia, nelle montagne, e li sentivo smuoversi in me…». È evidente, in questo passaggio, come l’immagine dei topi diviene la metafora di queste dinamiche psicologiche.

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In treno Silvestro è seduto accanto a dei «piccoli siciliani curvi… scuri in faccia ma soavi», e subito si accende il dialogo e un sentimento di intima fratellanza. Uno di questi lo crede un “americano”, proiettando di scorcio quel mito dell’America con le sue aspirazioni a un mondo utopico e più felice. Tra gli altri interlocutori del viaggio in treno emerge il Gran Lombardo, nato da un particolare concreto, l’accento lombardo dell’uomo, ma elevato a indicazione “assoluta”: questi diviene il simbolo di un’umanità forte, della sua autosufficienza “robinsoniana”, tesa alla ricerca di valori vergini sui quali fondare la propria vita.

Nel 1945 il nostro pubblica Uomini e no, dopo nove anni di “silenzio”. Il romanzo può essere visto come il compendio tra lo sforzo di conciliare lo stile sperimentale di Conversazione in Sicilia con le esigenze del realismo e dell’impegno che occupano il clima culturale di quegli anni. Il risultato è interessante ma, a detta della critica, non sempre felice. La trama di Uomini e no è quella del partigiano Enne 2 che vive la Resistenza a Milano, nel 1944, e della sua ricerca di autenticità di vita. Purtroppo la delusione d’amore, il rifiuto di Berta, una donna che a lui preferisce il rapporto infelice che la lega al marito, inducono Enne 2 a imbarcarsi in un’azione di guerriglia che sarà in realtà un suicidio. La tecnica del dialogo, in questo libro, è molto simile a quella del precedente: Vittorini attua un vero e proprio rallentamento, con frequenti ripetizioni, col proposito di elevare la materia del romanzo a una dimensione che sta sopra la realtà, quella che in un celebre passaggio di Conversazione in Sicilia definisce come «quarta dimensione». Ma se nel suo libro più riuscito la tecnica rispecchia fedelmente l’intrecciarsi dei mondi dell’infanzia e del presente, dai quali scaturisce un mondo “avventuroso” di nuovi valori, in Uomini e no il sospetto della “maniera” e della “finzione” fa spesso capolino nel lettore critico, in virtù di una materia troppo attuale e troppo carica di precisi significati storici per essere innalzata a un valore “assoluto”. Da qui la sensazione di un racconto non sempre coerente e organico.

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Per l’autore il problema è quello di conciliare la libertà creativa, la sua capacità di “autonomia” e di conoscenza di verità astratte e assolute con la partecipazione alla storia. E l’organizzazione sociale e politica cui guardano gli intellettuali del periodo, l’aspirazione a un mondo rinnovato, viene dal Partito comunista. Vittorini si iscrive, ma i suoi rapporti, fin dall’inizio, si prospettano problematici. Da un lato non è convinto della politica di Togliatti, della sua apertura ai partiti borghesi; dall’altro non accetta che la cultura possa venir assoggettata alla strategia politica del partito. La polemica su questi temi viene ospitata su «Il Politecnico» e su «Rinascita». Togliatti accusa lo scrittore, sia pur in maniera velata, di propendere per un’arte arcadica e fine a sé stessa. Vittorini risponde per le rime, ribattendo che il modo peggiore per servire l’arte e la rivoluzione è di costringere la prima a «suonare il piffero» per la seconda.

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Pubblicato nel 1947, Il Sempione strizza l’occhio al Frejus presenta un linguaggio più realistico e popolare; la realtà e il mito si intrecciano in un dialogo più fluido e scorrevole per il lettore. Protagonista del romanzo è una famiglia che vive in miseria nella periferia milanese. Su tutti primeggia la figura del “nonno-elefante”, un vecchio paralizzato e di poche parole, mitizzato dalla figlia, simbolo dell’uomo primordiale. Nella vita della famiglia si inserisce a un certo punto Muso-di-Fumo, un operaio che si ferma a bere del vino col vecchio. L’ammirazione dell’operaio per il “nonno-elefante” sembra ricalcare un ideale religioso di vita, dove però la religione tradizionale, col suo Dio consolatore, viene rifiutata in favore di un sentimento più primitivo e naturale, che negli idoli privilegia la forza e l’autonomia. Siamo sempre dalle parti del Robinson Crusoe: la religione non deve diventare un’evasione dal mondo ma il monito a essere forti e padroni di sé. Lo sforzo d’inserire l’ideale del rifugio nella dignità della sofferenza personale e di tramutarlo in un’esperienza umana integrata nel mondo attuale, in continua evoluzione tecnologica, informerà di sé anche i libri seguenti, come Le donne di Messina (1949, Bompiani, rimaneggiato e ripubblicato nel 1964), che racconta di un gruppo di sbandati dalla guerra che decidono di costruire insieme, ripartendo da zero, in un villaggio abbandonato, una nuova vita sociale. È significativo che il processo si arresti, dopo aver percorso le stesse tappe dell’umanità, alle soglie dell’età “moderna”, scontrandosi con le leggi dell’industria e del capitalismo.

La felicità del vivere secondo natura, la letteratura di Elio Vittorini

Gli ultimi anni di Vittorini sono dominati dagli interventi in riviste come «Officina» o il «Menabò», che sostengono la visione del mondo dei protagonisti nella stagione, che si aprirà di lì a poco, della Neoavanguardia. La sua idea di letteratura è di rifiutare l’univocità e la chiarezza del discorso, lasciando al lettore l’intuizione e la scelta «tra le varie congetture sulla realtà». Su questo pensiero si fondano il romanzo breve La Garibaldina (1950, prima uscito in rivista) e Le città del mondo, romanzo incompiuto, scritto tra il 1952 e il 1955, uscito postumo. Dalla felicità naturale e pura che s’identifica con l’infanzia si approda alla consapevolezza del male, dell’ingiustizia e dell’oppressione che gravano sulla società. Nel 1961 Elio Vittorini è colpito dalla morte del figlio Giusto. Nel 1963 subirà una prima, seria operazione. Mentre lavora a una nuova collana di saggi per Einaudi, viene raggiunto dalla morte, il 12 febbraio 1966. A 50 anni dalla scomparsa abbiamo inteso ricordarlo così, come l’autore che, muovendo dalla nostalgia dell’infanzia e della sua felicità, ha saputo essere «più uomo» anche dopo che il male ha recato la sua «offesa al mondo», cercando con perseveranza un’alternativa, una risposta che si concretizza nel mito del robinsonismo, in un rapporto vero, autosufficiente e diretto, libero dai condizionamenti e dalla violenza della storia e della società.

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