“La dittatura dell’inverno” di Valeria Ancione: la sfrontatezza dell’amore non è mai silenziosa
Se cercassimo un mantra tra le pagine de La dittatura dell’inverno (Mondadori), il primo romanzo di Valeria Ancione, sarebbe senz’altro: “L’amore non ha sesso”. Mantra, coronamento delle molte storie dentro al racconto, sintesi assoluta dello spirito della protagonista del romanzo, colophon scritto sulla pelle del lettore. È un libro giocato a carte scoperte, che senza preamboli ci porta quasi in media res di un amore tra donne, dove l’esperienza è automaticamente conoscenza, è toccare e quindi sapere e subito raccontare. Senza mediazioni gentili, con tutta l’urgenza del volere.
In origine c’è un orizzonte tradizionale, invidiabile, dove «funzionava tutto: il lavoro, la famiglia e io, perché come mai nella vita mi sentivo bella». Tre librerie, cinque figli, una casa, la vita di Nina scorre senza scosse tra numeri dispari; ci voleva per forza l’arrivo di Eva a portare il pari, il due, un inatteso due al femminile. «Mi piaceva tutto di lei, era come volevo essere io. Non solo era bella, era libera, senza vergogna, senza inibizioni. Libera nei sentimenti, aveva il coraggio di esprimerli, non chiedeva niente in cambio, era pura». Inutile cercare in un matrimonio scassato l’appiglio per giustificare la fuga di Nina verso l’amore per Eva. Michele, il marito, è l’uomo perfetto e anche questo emerge con chiarezza fin dalle prime pagine del romanzo; sposo, padre, amante, libraio senza ombre, un totem di generosità, calma e comprensione.
Nina, Michele, i ragazzi, i loro luoghi, la casa di Roma ingarbugliata ed effervescente, quella di Ventotene che serve a riordinare i cuori dopo l’inverno, le librerie, dove i clienti condividono lo spirito familiare grazie alle crostate che Nina prepara con le sue mani. Che bisogno c’era, ci si chiede, di aggiungere rumore a tutto questo. Perché «quando si muove nella mia vita Eva fa rumore», la sfrontatezza dell’amore non è mai silenziosa.
Lì per lì i sentimenti di Nina verso Eva indossano la maschera dell’amicizia, flessibile e adattabile nel coprire lo sbigottimento causato dal desiderare una donna. Poi spuntano la “curiosità” e la preoccupazione, al primo approccio più intimo, di non aver «commesso niente di sconveniente». Infine, dopo il primo bacio fiorisce sulle labbra anche l’ossessione di non dare a vedere di aver «combinato qualcosa di grosso». C’è tutto il linguaggio dei luoghi comuni fin dalle prime battute, un prevedibile glossario che lo spiegarsi dei sentimenti tra le due donne dovrà depennare. Parole come “libertà”, “dittatura”, “democrazia” delineano quella specie di disordine istituzionale amoroso vissuto dalla protagonista nella «piccola fuga, senza pretese» alla scoperta dell’amore per Eva.
La piccola fuga di Nina diventa un viaggio lungo due inverni per ritrovare sé stessa. Il suo rapporto con Eva riaccende il desiderio di essere desiderata, il bisogno di riprendersi il corpo dopo le gravidanze: «mi aiutava a capire che in fondo mi piacevo». È anche un costante misurarsi con la propria età, col giro di boa dei quaranta che sbatte addosso all’innamoramento per una ragazza di trenta e crede ormai di essere fuori tempo massimo per donarsi, «mi sentivo tremendamente vecchia». L’alternativa al donarsi a una donna è darsi a due uomini.
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Contemporaneamente al rapporto con Eva, Nina inizia storie di sesso con un professore e con il direttore di una rivista, due clienti delle librerie, due binari lungo i quali tenta in qualche modo di ripristinare i parametri della “normalità” nel rapporto uomo/donna. Sono storie senza sentimento, vissute come guardandosi da fuori, nella necessità di lasciarsi svuotare per poi riempirsi di nuova linfa, di una nuova consapevolezza di sé. «Non mi vergognavo di me, di essermi fatta scopare, di aver dato il mio corpo senza emozioni. Ero troppo diversa da ciò che pensavo di essere e gli incontri con quei due uomini non avevano chiarito nulla. Tranne che potevo fare del mio corpo quello che volevo, come cederlo al desiderio di una persona e restare spettatrice fredda». Il romanzo è costruito su un’impalcatura di forte fisicità come mezzo per comunicare e a questi amanti occasionali viene affidato il compito arduo di dimostrare che l’uomo, per la donna, è o dovrebbe essere sempre la soluzione migliore. I due forniscono invece fiotti di umori tra il ridicolo e l’avvilente e un ritratto scanzonato del peggio dell’ego maschile: «li ho visti accudire il loro pene e riporlo nella custodia come un gioiello», nel gioco adolescenziale che immagina «un accordo su chi mi avrebbe portato a letto per primo». Come non cercare riparo nel cuore e sul corpo di Eva, con simili presupposti.
Eppure è un uomo a resettare con delicatezza il disco duro sballato della vita di Nina. Michele, suo marito, che l’aiuta a trovare il modo di salvare il file del suo amore per Eva nell’archivio giusto, affinché rimanga sempre in memoria e sia consultabile in ogni momento, qualcosa di presente e assimilato al tempo stesso. Michele che capisce che non ha senso competere con qualcosa che non conosce, l’amore di una donna per sua moglie. Michele che è «un calmante», l’unico confidente. Michele da cui Nina impara «la dignità dell’amore» e riceve il primo impulso a non lasciarsi consumare dal vuoto dell’impossibilità di Eva.
Se la ricomposizione è possibile per tutti, lo si deve solo a un assioma ineluttabile: «L’amore è un moltiplicatore d’amore, non si divide». Solo così si azzerano i sensi di colpa e i luoghi comuni dei sentimenti. Parole come “tradimento”, “adulterio”, “colpa”, “giudicare” vanno rivoltate come calzini e sostituite con «comunicazione, bisogno di conoscersi e partecipare». «Ho cancellato il senso di colpa, non mi sento di aver tradito nessuno», dice Nina. Nessun concetto tradizionale si può applicare a queste pagine senza svilire il senso dell’amore della protagonista per Michele e per Eva. Il significato del rumore e del disordine va cercato in un “atto rivoluzionario” nel cammino verso la «ricerca di una vera e autentica identità mai strutturata» da parte di Nina.
La dittatura dell’inverno alla fine si rivela blanda, si esercita a fior di pelle su uomini e donne in apparenza mai segnati dal dolore. All’incastrarsi frenetico di situazioni, sensazioni e corpi manca profondità; alla macina delle emozioni servirebbe il sassolino che fa saltare l’ingranaggio, minacciando seriamente la perdita irreparabile di qualcosa o qualcuno. È un mondo lieve e facile quello di Nina, dominato dalla bellezza e dalla fiducia: la libreria l’aprono i clienti quando i librai non possono, i mariti non sono mai sfiorati dall’ombra del risentimento, le madri incoraggiano le figlie a esplorare territori insoliti senza farsi troppe domande. Tutto vale purché Valeria Ancione ci convinca, attraverso Nina, che l’amore non ha sesso e che il conformismo è frutto de La dittatura dell’inverno.
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