La difficile storia di una ragazza invisibile
La ragazza invisibile. Quante? Ma anche: quanti? Al di là della domanda, troviamo il titolo dell’ultimo libro di Torey Hayden, pubblicato in Italia da Corbaccio, nella traduzione di Lucia Corradini Caspani.
Eloise è una adolescente. È in questo momento della sua vita che la conosciamo. Ha alle spalle una storia triste, anzi straziante, di innumerevoli affidamenti e affetti mancati. Una storia cruda. E, per fortuna, non sono in tanti a viverne. Eppure, nei dettagli, nelle screziature dei sentimenti, ci si ritrova come in una storia che già si conosce, che abbiamo già visto, in noi, in altri. C’è qualcosa di universale nelle emozioni di questa ragazzina che sembra vivere ai margini della vita. Ma soprattutto, sembra che ci stia dicendo La ragazza invisibile, una cosa molto forte: ciò che non capiamo, che non sperimentiamo in prima persona non necessariamente è anomale, è malattia. Siamo messi in guardia dai nostri più profondi pregiudizi.
In occasione dell’uscita in Italia del libro, abbiamo avuto il piacere di scoprire qualcosa di più su La ragazza invisibile parlandone direttamente con l’autrice.
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La prima domanda che vorrei porle è come nasce l’idea de La ragazza invisibile?
Era un tema che volevo esplorare. Mi aveva affascinato questa bambina promettente che nessuno ascoltava e con la quale aveva avuto l’occasione di lavorare. Quando venni a sapere della situazione di stalking, anche grave, tant’è che ha richiesto l’intervento della polizia, mi sono domandata cosa avesse spinto una ragazza così promettente a commettere un gesto così inconsulto. Ho scoperto una bambina senza supporto. E, se non fosse per l’incontro casuale quindici anni più tardi, non avrei saputo dire quale impatto avessi avuto su di lei. Questo ci dice qualcosa sulle nostre azioni: anche quando ci sembra di fare poco, finiamo per fare molto di più di quanto crediamo.
A un certo punto, Eloise riceve un diario, in cui le viene chiesto di esprimere i suoi sentimenti seguendo alcuni passaggi. Esiste forse una scrittura curativa, per così dire, distinta dalla letteratura in generale?
Quando si scrive non ha alcuna importanza la forma. Che sia un romanzo o poesia o altro, per chi è a suo agio con la scrittura può essere un ottimo strumento per capire se stessi. Se stessi e il mondo.
Personalmente, ho sempre amato scrivere. Anche da piccola, quando non padroneggiavo ancora l’alfabeto, mi esprimevo attraverso i disegni, che sono una forma di scrittura, in ultima analisi.
La scrittura pone una distanza tra noi e i nostri sentimenti e quindi credo si possa trarre beneficio da questo.
Vedere la vittima nel carnefice forse è la cosa più difficile da fare. Che implicazioni sociali avrebbe uno slittamento di prospettiva di questo genere?
Ci farebbe capire che tutte le persone sono uguali. Anche l’aggressore ha lati positivi. E l’aggressione è una reazione a un trauma che implica una difficoltà a ragionare chiaramente. Punendo il comportamento, come abbiamo visto, non è efficiente. Occorre ripensare meglio il nostro sistema correttivo, per così dire.
Mi vengono in mente le recenti notizie sugli abusi sessuali, per esempio, in certi ambiti. Cosa significa questo? Che è tutto marcio e da buttare via? A mio avviso, no. Bisogna approcciare la questione in un modo più complesso, un modo che rifugge le semplificazioni e gli schematismi.
«Mamma e papà odiavano tutto l’una dell’altra. Me compresa». Nella vicenda di Eloise accade qualcosa di patologico, eppure, purificato dagli estremi della circostanza, quelle stesse sensazioni potrebbe averle vissute un qualsiasi bambino i cui genitori si odiano, da separati o vivendo sotto il medesimo tetto…
È qualcosa che sottostimiamo spesso. L’odio e i pensieri distruttivi sono molto potenti. I bambini sono egocentrici, per cui vedono se stessi come responsabili di ogni cosa. Credono che mamma e papà abbiano problemi per causa loro. A volte, è così. A volte, i genitori si sentono in trappola a causa dei figli.
Si può prevenire questo sentimento? Credo che l’unica via che abbiamo a disposizione è quella di parlarne ai nostri figli e dire loro che non sono responsabili delle dinamiche famigliari. Forse non sarà facile convincerli, ma è importante che lo sappiano.
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Quanto è difficile affiancare e aiutare bambini sulle cui spalle pesano storie così difficili e sconvolgenti, come potrebbe essere quella di Eloise?
È molto importante sapere che non sei parte della storia. Sei solo una contenitore per quella circostanza. Come il vaso non è l’acqua che contiene, così tu sei una cosa a parte. Altrimenti, il rischio di venirne risucchiati e diventare vittima è un pericolo reale.
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Per la prima foto, copyright: Keenan Constance su Unsplash.
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