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La crisi culturale italiana: dati, analisi e riflessioni

Crisi culturale italianaArticolo pubblicato nella webzine Sul Romanzo n. 6/2013 Racconto della crisi.

Negli ultimi tempi, la cultura viene vista come qualcosa di cui è possibile (per alcuni anche auspicabile) fare a meno, dal momento che, sembrerebbe, sono altri i bisogni di cui necessita il nostro Paese. Ebbene, questo parere, piuttosto diffuso tra l'opinione pubblica, alimentato da una disinformazione e da una certa approssimazione giornalistica, rischia di allontanare dalla realtà della situazione.

Per chiarire le idee si potrebbe partire dal rapporto 2013 di Federculture che a luglio 2013, nella sala della Protomoteca in Campidoglio, ha presentato i dati relativi al 2012 riguardanti il settore culturale, alzando i toni e dichiarando lo stato d'allarme. Il 2012 ha registrato, infatti, un -4,4% sulla spesa per la cultura. A questo si associano i dati sulla ricezione culturale negativi in ogni settore, con un calo significativo per quel che concerne i teatri (-8,2%), musei e mostre (-5,7%), concerti (-8,7%) e cinema (-8,2%). Gli stessi investimenti registrano dati negativi: nel 2012, i Comuni italiani hanno tagliato dell'11% le loro disponibilità mentre i privati del 9,6%. In generale, il calo dal 2008 è del 42%.

La situazione esposta dal rapporto 2013 di Federculture risulta ancora più grave se si prende in esame il tasso di disoccupazione che, stando ai dati Istat relativi al periodo di agosto 2013, è aumentato dell'1,4% rispetto a luglio 2013 e del 14,5% su base annua. A questi dati dobbiamo affiancare quelli che riguardano le persone in cerca di lavoro tra i 15 e i 24 anni che rappresentano l’11,1% della popolazione in questa fascia d’età. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero l’incidenza dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 40,1%, in aumento di 0,4 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 5,5 punti nel confronto tendenziale.

Il tasso di disoccupazione può essere interpretabile come una conferma del fenomeno di dis-interpretazione tra individuo e società, tratto saliente della modernità avanzata (cit. Federico Chicchi, Derive sociali precarizzazione del lavoro, crisi del legame sociale ed egemonia culturale del rischio, Franco Angeli, 2001, pag. 122). Se è vero, come infatti emerge dagli studi di sociologia e diritto dell'economia, che il Novecento era il secolo rappresentativo della Società del lavoro all'interno della quale il valore di una persona era direttamente proporzionale al ruolo che rivestiva nell'attività produttiva, è pur vero che quello che molti filosofi contemporanei definiscono come periodo post-modernista ha visto l'inaugurazione di nuove dinamiche sociali in seguito all'utilizzo di macchinari che hanno semplificato (e in molti casi sostituito) il lavoro dell'uomo. Va da sé che il lavoro pretende uno sforzo in più da parte dell'uomo contemporaneo, ovvero coinvolge l'immaginazione, la creatività, la socialità, la motivazione. Per questo Chicchi parla di dis-interpretazione tra individuo e società, richiamando l'attenzione su ciò che sta producendo il modello post-fordista, cioè la precarizzazione e la totale inadeguatezza dei modelli lavorativi che, al contrario, funzionavano laddove era necessario un rapporto di subordinazione del dipendente nei confronti dell'azienda o del titolare stesso. Oggi, i confini sono meno netti e risentono di quella fluidità e flessibilità proprie di una società da reinventare (Federico Chicchi, Lavoro e vita sociale: le dense ambivalenze della società flessibile).

La disoccupazione viene affrontata in modo differente sulla base delle disponibilità economiche, sociali e culturali degli individui di volta in volta coinvolti (Federico Chicchi, Derive sociali precarizzazione del lavoro, crisi del legame sociale ed egemonia culturale del rischio, Franco Angeli, 2001). Questo porta a differenti forme di povertà e a ciò che Federico Chicchi, nel suo saggio, definisce le fasce deboli emergenti.

A fronte di questo spaccato di realtà culturale italiana abbiamo settori dove l'offerta supera di gran lunga la domanda. Rifacendoci sempre ai dati Istat, a partire dall'anno 2010 si registra un incremento dei libri pubblicati e una certa molteplicità di generi offerti dalle case editrici (queste ultime, tuttavia, in calo rispetto a quelle dell'anno precedente). È interessante anche vedere le statistiche relative l'andamento della lettura già in età scolastica e l'influenza geografica.

L'offerta crescente riguarda anche le fondazioni culturali: creatività, ingegno e voglia di fare sembrano essere gli ingredienti alla base di una start up culturale vincente. Nascono, quindi, realtà come Culturability «uno spazio in cui la cultura genera innovazione e occupazione con progetti sostenibili a forte impatto sociale promossi dai giovani. Un posto in cui lo stretto legame tra cultura, creatività e sviluppo si riafferma a partire dalla nascita di nuove imprese. Per promuovere la creazione e sostenere queste start up, la Fondazione Unipolis lancia il bando ‘Culturability, fare insieme in cooperativa’: 300.000 euro e una rete di partner per un percorso di accompagnamento alla costituzione delle imprese», oppure le iniziative di Startup come DeRev («piattaforma per ottenere finanziamenti, partecipazione, visibilità, feedback e proposte grazie all'unione e alla collaborazione di persone appassionate, competenti, interessate, che supportano il tuo progetto o condividono la tua causa per trasformarla in una Rivoluzione») che ha da poco mappato le piattaforme italiane per il crowdfunding attualmente attive in Italia.

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È a questo punto che la politica dovrebbe dimostrare la sua forza aiutando la crescita della domanda (ristabilendo, quindi, l'equilibrio tra domanda e offerta) e investendo sulla formazione. Il sistema scolastico e universitario ha il compito di preparare le generazioni future. Laboratori, dibattiti, approfondimenti (attraverso l'intervento di specialisti dei vari settori), gite e soprattutto stage e percorsi veramente formativi che siano in grado di accompagnare lo studente (seguendo l'esempio delle università americane) nel mondo del lavoro e introdurlo in modo efficace e competente. Fare leva sulle competenze e sulle abilità. Il nostro Paese, soprattutto in questo momento storico-sociale, ha bisogno di gente preparata e che sappia fare; solo facendo leva sulle competenze reali si potranno formare delle generazioni che siano in grado di affrontare i problemi con idee convincenti e di parlare e confrontarsi facendo appello alla ragione.

L'allora ministro della Cultura, Massimo Bray, ha dichiarato, in occasione del convegno Investire in conoscenza, cambiare il futuro organizzato dalla Fondazione Con il Sud e dal Forum del libro, che uno degli aspetti preoccupanti «è questo flusso continuo di nostri ragazzi che sono costretti ad andare fuori per costruire il loro futuro. Dobbiamo investire per migliorare sempre di più quelle che sono le nostre università, il sistema scolastico». Il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, ha, invece, illustrato la situazione partendo dai dati Eurostat secondo i quali «studiare conviene perché rende più probabile trovare un lavoro: nel 2011 in media nell'Ue lavorava l'86% dei laureati contro il 77% dei diplomati. In Italia, tuttavia, studiare conviene meno: per i laureati tra i 25-39 anni, la probabilità di essere occupati era pari a quella dei diplomati (73%) e superiore di soli 13 punti percentuali a quella di chi aveva conseguito la licenza media».

La cultura, quindi, è la risposta alla crisi, ma serve cooperazione, impegno politico, leggi, manovre e anche tecnologia. A questo proposito il Commissario Ue, Neelie Kroes, intervenendo al II Italian Digital Agenda Annual Forum, promosso da Confindustria Digitale, ha caldamente invitato l'Italia a «prendere sul serio la questione della connettività» (attualmente la copertura delle reti a banda ultra larga raggiunge solo il 14% delle abitazioni, un dato che ci pone all'ultimo posto in Europa). Neelie Kroes ha, inoltre, dichiarato che «Internet crea 5 posti di lavoro ogni 2 persi. Dieci punti percentuali in più di banda larga porterebbero ad un aumento della crescita tra l'1 e l'1,5%" e "che presto il 90% dei lavori richiederanno competenze digitali». Insomma, la crescita della digital economy sembra essere uno degli obiettivi fondamentali per uscire da questa situazione di stallo.

Dello stesso parere sembra essere il rettore dell'Università Bocconi di Milano, Andrea Sironi, che, in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico, ha parlato delle riforme che il nostro Paese deve affrontare necessariamente: «una riforma del mercato del lavoro che ne accresca il grado di flessibilità, una riforma del sistema fiscale che ne riduca le distorsioni spostando il carico dal lavoro ai patrimoni, una riforma della giustizia civile che ne migliori il grado di efficienza riducendone i tempi, una riforma della pubblica amministrazione che ne potenzi l'efficacia» e del comportamento del sistema universitario: «operare come agenti per lo sviluppo e la mobilità sociale; stimolare l'innovazione e la crescita; preparare la futura classe dirigente; essere polo di attrazione di capitale umano e fare da ponte con il mondo del lavoro».

E questo è un discorso che coinvolge tutte le classi sociali, sul quale ognuno di noi deve fare uno sforzo in più per capire che non è solo il "fare" a migliorare le cose, ma anche lo studio, la riflessione, l'ascolto e la condivisione. E per questo ci vuole tempo, investimento e volontà.

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