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La cosmogonia del ricordo quotidiano. “La straniera” di Claudia Durastanti

La cosmogonia del ricordo quotidiano. “La straniera” di Claudia DurastantiLa straniera è il nuovo romanzo di Claudia Durastanti per La nave di Teseo, tra i candidati al Premio Strega 2019: narrando la sua storia, lei, figlia di disabili, dall’infanzia fino a qualche anno prima della pubblicazione del romanzo, Durastanti, con sguardo antropologico e leggero, per quanto profondo, ci presenta il cambiamento epocale, tra l’America e la Basilicata, attraverso momenti di nostalgia e guizzi di ironia, mutamenti politici e sociali con una scrittura che indaga il ricordo e le contraddizioni del presente. Di seguito un’intervista all’autrice.

 

Per attimi è stata una donna diversamente abile, ma tutti siamo diversamente abili: parla spesso di disabilità e, la scrittura, quando è davvero del desiderio, come nel suo caso, credo nasca da una mancanza o da un’autopercezione d’incompletezza. Siamo tutti diversamente disabili: che lavoro ha fatto sul suo personaggio narrante per evitare, come ha fatto brillantemente, il rischio dell’autoreferenzialità, il rischio di rendere il romanzo una lunga lamentela egocentrica del proprio disagio familiare?

Credo che a «salvare» questo libro dall’autoreferenzialità, ammesso che si parli di salvezza, sia stata tutta la fiction e i romanzi che l’hanno preceduto. Tutto è biografia, niente lo è completamente: per me A Chloe per le ragioni sbagliate ma anche un racconto come Jet Lag inserito nella raccolta La vita alcolica hanno uno statuto di verità e di squarcio su me stessa molto più concreto e se vogliamo anche più osceno. Avendo scaricato fantasmi e ossessioni biografiche o contigue alla psicoterapia nella forma romanzesca, paradossalmente ho potuto «attaccare» la mia vita con un approccio molto più narrativo, gioioso e libero ne La straniera. Credo sia significativo che io abbia iniziato a usare intensamente la prima persona nel mio lavoro para-saggistico, scrivendo longform per varie riviste online: proprio dove avrei dovuto mantenere un distacco critico, ho attinto dall’esperienza, cercando una voce più intima ma allo stesso tempo larga, nel tentativo di capire in quale punto l’io si dissolve in una prima persona plurale, inclusiva. Uno dei rischi nel racconto della storia della mia famiglia era sottolinearne continuamente l’unicità, ma questa unicità del disastro, per quanto affascinante, sarebbe stata un’eco dell’isolamento a cui ho cercato di sfuggire tutta la vita. Penso mi abbia aiutato ragionare in termini di biomitografia, una forma usata da Audre Lorde, in modo da disgregare e riaggregare il sé attraverso il mito e la storia. Ecco, penso che chi scriva di sé abbia sempre in testa una specie di mito, ed è falso credere che questi siano sempre gloriosi, tragici o dilaniati dalla vergogna. Esiste anche una quieta tregua da raccontare, che non è distacco né freddezza. La storia di sé ha tanti volumi, volevo sperimentarne e trovarne di nuovi in questo libro.

 

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Se la tossicodipendenza era una forma di amnesia, la sobrietà era un eccesso di memoria: la memoria oltrepassa il suo corpo presente e retrocede all’origine dell’origine, ai nonni, mescolando, montando scene del quotidiano, vissuto sulla propria pelle, e ricordi, per così dire, di quando non era ancora nata: abilmente tesse destino, progetto e presente. Come ha fatto, tecnicamente parlando? Ha creato delle scalette? Ha scritto a flusso continuo?

La straniera ha avuto un’occasione narrativa abbastanza felice: mia madre mi ha sempre raccontato una storia sulle origini del suo matrimonio, mio padre qualche anno fa me ne ha raccontata un’altra. Dichiarando in apertura che la mia famiglia si fonda su una bugia o su una memoria sbavata, è stato facile estendere questo principio al resto, e scavare nel tempo con un approccio più incosciente che forense. Non volevo tanto capire perché le donne della mia famiglia si siano date alle migrazioni – o meglio, perché si siano «lucidamente affidate» alle migrazioni come altre persone descritte nel libro fanno con le droghe – in un determinato momento delle loro vite, perché abbiano scartato il passato a favore del futuro e viceversa tornando da New York alla Basilicata: non sarei mai potuta arrivare a identificare le loro ragioni, e non volevo sovraccaricare il romanzo di introspezioni psicologiche. Neanche io, di fatto, ho compiuto alcuni scarti con tutta quella consapevolezza, e sarebbe stato posticcio ricreare delle intenzioni a posteriori. Quindi non ho seguito una scaletta temporale, né cercato di creare una dinamica causa-effetto che fosse troppo risolutiva. Ho concepito il libro come una mappa, una specie di costellazione avvalendomi delle voci banali di un oroscopo – Famiglia, Viaggi, Salute–, Denaro e Amore, e poi ho riempito questi spazi con dei personaggi, interessata più alle traiettorie disinvolte che hanno disegnato nel tempo, rendendole più fioche o luminose in base alla prospettiva, e senza dimenticare che anche io ero un personaggio con il dovere narrativo di innescare certi desideri nel lettore. Mi sono messa a girovagare nel tempo della mia famiglia selezionando diversi campioni di memoria: ci sono memorie cicatrizzate, altre ancora in fase di sedimentazione, altre che sono molto evanescenti; volevo rappresentarle tutte.

La cosmogonia del ricordo quotidiano. “La straniera” di Claudia Durastanti

La traduzione e anche la storia di una poetica inaccuratezza: la traduzione è anche negli esiti comici della distorsione dialettale, e pure nel suo desiderio che si fa parola. La lingua materna è ritrovata in tarda età: questo romanzo, quanto risente del suo lavoro di traduttrice, levatrice del significante da un sistema linguistico a un altro? Il linguaggio è anche medium politico?

L’attività della traduzione è diventata preponderante negli ultimi anni e mi ha permesso di sviluppare molti ragionamenti sul linguaggio, con due esiti principali: ho iniziato a comprendere quanto sia politica l’esperienza della traduzione, ma anche quanto sia un processo che mi avvicina a mia madre, che me la restituisce ogni volta. Trafficando tra varie lingue ufficiali e altre lingue di contrabbando, il pidgin mezzo muto mezzo udente e carico di gesti che non significano nulla se non per me e per lei, mi rendo conto quante possibilità di sfida rispetto al canone e agli automatismi linguistici che si tramutano spesso in stereotipi e offese o semplicemente in noia siano intrinsechi in ogni forma di comunicazione parlata e scritta. È chiaro che io e i miei genitori padroneggiamo la lingua in maniera molto diversa da me, ma grazie alla traduzione di testi letterari, agli errori che commetto e ai che capitano quando trasporto un testo da una lingua all’altra, grazie alle loro continue effrazioni di quello che è «corretto», mi rendo conto che c’è tutto un bacino sommerso sotto le parole che usiamo e che a volte ci si imbatte in qualcosa di poetico e disordinato e imprevisto che mi fa sentire grata. Qualche sera fa mio fratello mi ha letto il messaggio che le ha invitato la donna straniera che si occupa di nostra donna in questi giorni di malattia, e sorridendo ci siamo detti che sembrava quasi un haiku, aveva un suo ritmo involontario e un lirismo che un po’ hanno trasformato la mia giornata. Magari mi succedesse sempre con i romanzi che leggo! Tradurre significa stare sempre con i sensi all’erta, a volte mi sembra un super-potere, una forma di ascolto amplificato, non riuscirei più a scrivere senza.

 

Anni fa parlavamo di noi stessi in terza persona su Facebook e ci pareva legittimo, narrativo, diventavamo personaggi senza che questo offendesse nessuno, poi siamo tornati all’io: il suo punto di vista è femminile nella complessità globale, è una struttura proustiana, scrivere della memoria implica l’apertura di ulteriori storie in seno al filone principale: sul palcoscenico della memoria come ha trattato le persone reali per accoglierle nei personaggi del romanzo?

In fase di stesura ho letto molte autrici che hanno utilizzato la prima persona in maniera esplicita o dissimulata, sfidata, ricomposta e di nuovo infranta, e volevo confrontarmi con questa sensibilità di genere dentro al genere: non ho problemi ad ammettere che a mio avviso alcune autrici hanno fatto cose molto più interessanti con la scrittura di sé rispetto ad autori che da tempo si dibattono nell’autofiction, hanno aperto nuove frontiere. Forse perché sono costrette a ragionare sui confini di questo sé da sempre, è un addestramento prolungato che a un certo punto erompe, e deve trovare nuove forme di espressione. È facile che a un certo punto questo ragionamento sull’essere donna, che spesso non è neanche al centro della propria analisi, si trasformi in un ragionamento molto preciso su cosa significhi essere altro da sé, si estende alla propria idea di cittadinanza, e crei una connessione intima e radicale tra letteratura, vita e politica. di È una scrittura meno educata e dunque spesso più interessante da leggere. Penso a quanto sono state importanti Joan Didion, Chris Kraus, e Maggie Nelson per me, e più di recente Olga Tokarczuck e Rachel Cusk. Non sto annoverando i meriti di una scrittura femminile rispetto a una scrittura maschile, ma dimenticare che chi scrive occupa una determinata posizione nel mondo, ha un corpo e una storia mi pare una forma di falsissima coscienza. La straniera parla anche di questa storia.

 

Mia madre mi mancava quando spariva, ma lei era una nebulosa e mio padre una galassia nerissima che neutralizzava qualsiasi teoria fisica: le balene, il mare tra i continenti, la madre… è molto presente la madre, più del padre, a volte, o è solo una mia impressione?

Non sono solo cresciuta con mia madre, ma sono stata intrappolata nei suoi sogni e nella sua autobiografia per un tempo molto, anche dopo essermene andata di casa. E non ho avuto accesso allo stesso mistero quando si è trattato di mio padre. Nel libro ho cercato di preservare quest’incognita, e di contrapporre al corpo onnipresente di mia madre quello «duplicato» di mio padre. Vederlo e ritrovarlo al cinema, in centinaia di ruoli diversi, mi ha permesso di sviluppare un legame filiale molto particolare, ed è stata una delle forze propulsive di questo libro.

La cosmogonia del ricordo quotidiano. “La straniera” di Claudia Durastanti

Quando mi sono iscritta ad Antropologia all’università, l’ho fatto come se mi stessi iscrivendo a un corso di educazione contro gli stereotipi: crede che la scrittura, per lei che ha studiato Antropologia all’Università, possa ambire a pratica magica, penso a De Martino, e evocare i fantasmi e anche scacciarli? È terapeutica? Se sì, quale, se c’è stato, il cambiamento interiore che ha generato o che è seguito, a questo romanzo?

Il tema della magia è molto presente ne La straniera, come una pratica inconscia di difesa e di liberazione. È un filone molto battuto dagli studi antropologici in Italia nel secondo dopoguerra, ovviamente, soprattutto quando si tratta di meridione, ma volevo sovvertire l’idea che la magia sia una forza o una credenza che si sottrae alla storia. Come risorsa mi pare fatta di regressioni e accelerazioni, a volte si nasconde nel passato ma tante volte anticipa il futuro. È oscurantista quando visionaria, vecchia quanto modernissima. E per me crescere in Basilicata è stato questo, essere arroccata in uno spazio anarchico e magico in cui le ragazze trovavano nuovi modi per liberarsi dalla possessione, è uno spazio in cui si è incubata la scrittura e lì ho imparato a convivere con certi bellissimi mostri che poi non ho più perso, e ancora affiorano quando scrivo. E forse la scrittura continua a essere un talismano con questa doppia funzione di difesa e liberazione, proprio come la magia, ma con il tempo ha acquistato anche altri poteri, meno individualistici in un certo senso. Non credo si possa restare nella scrittura o essere una scrittrice molto a lungo se presto non si imparano anche altri poteri, rivolti al lettore e al piacere della parola.

 

Ci parli un po’ della sua vita quotidiana durante la stesura del romanzo: dove scriveva, quando scriveva, cosa faceva tra una pausa dalla scrittura e l’altra? In quali luoghi è nato il suo romanzo?

Ho scritto la prima parte in una residenza per scrittori fuori New York, con una borsa di studio, in condizioni di isolamento pressoché totale, e infatti è la parte più genuinamente romanzesca e avventurosa del libro. Con tutto quello spazio e silenzio attorno, è stato più semplice distillare le storie, arrivare a una forma di purezza. La seconda parte l’ho scritta prevalentemente a Londra, dove vivo, e difatti diventa più saggistica, si disgrega, credo che il fattore ambientale abbia avuto un’influenza netta sul libro, mi ci sono vista invischiata e immersa. A un certo punto la città irrompe e non c’è modo di contenerla, porta rumori, malinconie e non credo di aver trovato una forma per contenerla.

 

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Lo ha scritto interamente al pc oppure anche a mano? Durante la stesura del romanzo le capitava di passeggiare in bici, in auto, a piedi e osservare alberi, scrutare edifici, finestre, affondare lo sguardo nel cielo, seguire le onde del suono e dell’acqua e trovare un’ispirazione per il suo romanzo? Fumava o beveva durante la stesura del suo romanzo? Quanto pesava? Scriveva dopo cena, prima di pranzo, quando? Come potrebbe definire la scrittura di questo romanzo: di spostamento, di stasi, di spazio, del corpo, della mente, come?

Ho scritto appunti, snodi e titoli dei vari capitoli a mano, su dei taccuini, disegnando una vera e propria mappa. Ma il testo è stato scritto tutto al computer. Non ho una disciplina ferrea, tranne quando approfitto di una residenza e metto da parte il lavoro di traduzione cerco di assecondare la scrittura quando arriva, in giornate a caso, resto sempre fedele ad Allen Ginsberg che sosteneva «non serve scrivere quando lo spirito non guida». Penso che considerarla un lavoro sistematico e come mia unica fonte di sostentamento mi annienterebbe del tutto, non bramo dalla voglia di scrivere e basta, ho orrore degli automatismi e delle palestre. Si scrive tanto anche negli spazi vuoti, nei mesi di lontananza da un libro o da un progetto. Non fumo, non bevo, mi distraggo facilmente. Penso che la parola più fedele per descrivere la condizione fisica di questo libro sia una parola inglese: «transit». È quasi come in italiano. Quasi.


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Per la prima foto, copyright: Tom Ezzatkhah su Unsplash.

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