La commovente lettera di addio di Giacomo Leopardi al fratello Carlo
Tra il luglio e l'agosto del 1819, Giacomo Leopardi progettò di fuggire da Recanati cercando di procurarsi un passaporto per il Lombardo-Veneto. La fuga fu scoperta dal padre Monaldo che impedì a Giacomo di allontanarsi da casa.
Intanto, però, il Nostro aveva già scritto una serie di lettere di addio, tra cui questa assai dolente e commovente al fratello Carlo che riportiamo qui di seguito.
A MIO FRATELLO CARLO
Recanati (senza data, ma luglio 1819).
Mio caro,
Parto di qua senz’avertene detto niente, prima perchè tu non sia responsabile della mia partenza presso veruno; poi perchè il consiglio giova all’uomo irresoluto, ma al risoluto non può altro che nuocere : ed io sapeva che tu avresti disapprovata la mia risoluzione, e postomi in nuove angustie col cercare di distormene. Sono stanco della prudenza, che non ci poteva condurre se non a perdere la nostra gioventù, ch’è un bene che più non si racquista. Mi rivolgo all’ardire, e vedrò se da lui potrò cavare maggior vantaggio.
Tuttavia questa deliberazione non è repentina; benchè fatta nel calore, ho lasciato passare molti giorni per maturarla; e non ho avuto mai motivo di pentirmene. Però la eseguisco. Era troppo evidente che se non volevamo durar sempre in questo stato che abborrivamo, ci conveniva prendere questo partito; e tutto il tempo ch’è scorso non è stato altro che mero indugio. Altro mezzo che questo non c’era: convenìa scegliere, e la scelta ben sapete che non poteva esser dubbiosa. Ora che la legge mi fa padrone di me stesso, non ho voluto più differire quello ch’era indispensabile secondo i nostri principii.
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Due cagioni m’hanno determinato immediatamente, la noia orribile derivata dall’impossibilità dello studio, sola occupazione che mi potesse trattenere in questo paese; ed un altro motivo che non voglio esprimere, ma tu potrai facilmente indovinare. E questo secondo, che per le mie qualità sì mentali come fisiche, era capace di condurmi alle ultime disperazioni, e mi facea compiacere sovranamente nell’idea del suicidio, pensa tu se non dovea potermi portare ad abbandonarmi a occhi chiusi nelle mani della fortuna.
Sta bene, mio caro, e a riguardo mio sta lieto, ch’io fo quello che doveva fare da molto tempo, e che solo mi può condurre ad una vita se non contenta, almeno più riposata. Laonde se m’ami, ti devi rallegrare: e quando io non guadagnassi altro che d’esser pienamente infelice, sarei soddisfatto, perchè sai che la mediocrità non è per noi.
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Porto con me le mie carte, ma potendo avvenire che fossero esaminate, non voglio compromettere me, e molto meno le persone che mi hanno scritto, col portarne qualcuna che sia sospetta. Ho separate tutte quelle di questo genere, sì mie, che altrui (cioè lettere scrittemi) e postele tutte insieme sul comò della nostra stanza. Ve ne sono anche di quelle che non ho voluto portare perchè non mi servivano. Te le raccomando : abbine cura e difendile : sai che non ho cosa più preziosa che i parti della mia mente e del mio cuore, unico bene che la natura m’abbia concesso. Se verranno lettere del mio Giordani per me, aprile e rispondi, e salutalo per mio nome, e informalo della mia risoluzione.
Al Brighenti si debbono paoli 8 per la Cronica del Compagni, paoli 3 per le prose del Giordani, e baiocchi 16 di errore nella spedizione del danaro per l’Eusebio. In tutto 1 e 36. Produca che sia soddisfatto, e dimanda perdono a Paolina se i 3 paoli che mi diede pel Giordani, e i baiocchi 16, per l’uso detto di sopra, gli ho portati con me, sperando ch’ella non avrebbe negato quest’ultimo dono al suo fratello se glielo avesse chiesto.
Oh quanto avrei caro che il mio esempio servisse a illuminare i nostri genitori intorno a te ed agli altri nostri fratelli! Certissimamente ho speranza che tu sarai meno infelice di me.
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Addio, salutami Paolina e gli altri. Poco mi curo dell’opinione degli uomini, ma se ti si darà occasione, discolpami. Voglimi eternamente bene, che di me puoi esser sicuro sino alla morte mia. Quando mi trovi in luogo adattato a darti mie nuove, ti scriverò. Addio. Abbraccia questo sventurato. Non dubitare, non sarai tu così. Oh quanto meriti più di me! Che sono io? Un uomo proprio da nulla. Lo vedo e sento vivissimamente, e questo pure m’ha determinato a far quello che son per fare, affine di fuggire la considerazione di me stesso, che mi fa nausea. Finattantochè mi sono stimato, sono stato più cauto; ora che mi disprezzo, non trovo altro conforto che di gittarmi alla ventura, e cercar pericoli, come cosa di niun valore.
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Consegna l’inclusa a mio padre. Domanda perdono a lui, domanda perdono a mia madre in mio nome. Fallo di cuore, che te ne prego, e così fo io collo spirito. Era meglio (umanamente parlando) per loro e per me, ch’io non fossi nato, o fossi morto assai prima d’ora. Così ha voluto la nostra disgrazia.
Addio, caro, addio.
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