La catarsi del commissario Bertè. “Ciak: si uccide” di Emilio Martini
Tra i libri usciti questa estate (qui alcuni consigli utili) è di recente pubblicazione l’ultimo romanzo di Emilio Martini, Ciak: si uccide, edito da Corbaccio. I lettori affezionati di Gigi Bertè, il commissario di origini calabresi trapiantato prima a Milano e poi in Liguria, nell’immaginaria Lungariva, sanno bene che dietro allo pseudonimo di Emilio Martini si nascondono due sorelle, Elena e Michela Martignoni, apprezzate scrittrici anche di romanzi storici, dedicati a Cesare Borgia. Si può leggere una loro recente intervista qui. L’ottavo romanzo della serie con protagonista Bertè è preceduto dall’esordio, pubblicato nel 2012, La regina del catrame, seguito da Farfalla nera, Chiodo fisso (questi tre sono stati pubblicati in un solo volume, edito nel 2016),Doppio delitto al grand hotel Miramare (2015)Il mistero della gazza ladra (2016),Invito a Capri con delitto (2017)eIl ritorno del Marinero (2018). Sfogliando le prime pagine, l’occhio di lettrice allenata è subito attratto da una stranezza: sotto un’interessante citazione, abbinata a una copertina minimal altrettanto interessante, compare un titolo diverso da quello in copertina, Ciak: si gira. La perplessità spinge a formulare due ipotesi: si tratta forse di un duplice titolo? Forse dopo il ciak si gira e si uccide allo stesso tempo? Verrebbe da pensare al Serafino Gubbio del Si gira di Pirandello… oppure, cosa più probabile, si tratta di una grossolana svista, che meriterebbe una tirata d’orecchi.
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Come il titolo (quello in copertina) fa intuire, in questo episodio è il mondo del cinema a fare da padrone: vittima di un delitto efferato è infatti una sceneggiatrice, Paola Olgiati, ben inserita nel mondo della settima arte nostrana, non sempre benvoluta da produttori e addetti ai lavori per via del suo carattere spigoloso. La donna è stata trovata decapitata nella casa dove momentaneamente alloggiava, impegnata nella stesura di una sceneggiatura spinosa e difficile. L’anomala arma del delitto sembra essere una katana, cioè un’antica spada da samurai. Gigi Bertè dovrà quindi muoversi in un mondo a lui estraneo, conoscendo attori famosi dal passato difficile non sempre onesti, bensì pronti a tutto per il successo, e dovrà scavare nel passato della vittima, a testimonianza che vita e arte sono spesso intrecciati tra loro.
Come se non bastasse, la sua collega, la Pm Irene Graffiani, sembra scomparsa nel nulla, e dunque il commissario dovrà mettersi anche sulle sue tracce. Chi scrive, ovviamente, non può svelare l’identità dell’assassino, ma può testimoniare che il meccanismo del giallo è ben oliato, i tempi sono calzanti e i personaggi sono ben caratterizzati fisicamente e psicologicamente. Dimenticando la delusione iniziale, è un romanzo che si legge con impazienza, facendo a gara con il commissario per capire chi possa essere stato a compiere il delitto.
Il personaggio di Bertè sta arrivando, episodio dopo episodio, a una meritata catarsi: si sta liberando del suo passato doloroso, ritrovando la serenità accanto a Marzia, la sua attuale compagna (vale la pena recuperare i romanzi precedenti per scoprire l’evolversi della loro storia). La sua coda di cavallo ormai brizzolata, le sue velleità di scrittore mancato e il suo appetito insaziabile ne fanno un personaggio genuino, così come la sua coscienza, detta “Bastarda”, con la quale dialoga spesso nella sua mente, e a volte questo dialogo immaginario tende a banalizzare troppo i pensieri del commissario, creando situazioni comiche non sempre pertinenti.
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Lungariva non esiste sulla carta geografica ma nella mente del lettore ormai è un luogo che sembra casa grazie ai profumi dei cibi preparati da Marzia e soprattutto grazie all’odore del mare, che pervade i romanzi dall’inizio alla fine. L’umanità del commissario e i casi di puntata mai banali hanno contribuito a far apprezzare questo personaggio, del quale si attende ancora, però, il romanzo migliore.
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