“La carta più alta” di Marco Malvaldi
«A leggere tutti i libri che sono al mondo io non ce la farò mai. Quindi non voglio perdere tempo a leggere troiate» (La carta più alta, Marco Malvaldi, Sellerio, 2012, pagina 68). E chi sono io per contraddire Malvaldi?
Per un attimo mi sono illusa che D’Orrico non si fosse espresso in merito a questo romanzo — ormai la mia personale battaglia con lo stimato critico ha raggiunto vette degne del Bagaglino —; invece, trovo una pagella nell'inserto La Lettura (Il Corriere della Sera, 5 febbraio 2012) dove persino lui, e stiamo parlando di quel signore che ritiene Faletti il più grande scrittore italiano vivente, non riesce a concedere più di un sei e mezzo all’ultimo lavoro di Malvaldi. Chissà quanto deve essergli costato non urlare al miracolo!
C’è da dire che la trama prometteva bene. Tra un birra e una partita a carte, salta fuori che il vecchio Carratori, proprietario di una villa venduta sottoprezzo in nuda proprietà, è morto talmente alla svelta da far risultare la transazione una vera manna dal cielo per l’acquirente. Certo l’idea era buona, peccato che il giallo mi abbia strappato più volte uno sbadiglio. Dite che la noia e il delitto non dovrebbero andare a braccetto? Beh, parlatene con Malvaldi, magari riuscirà a convincervi del contrario, tra una parlata toscana e una serie di parentesi infilate a mitraglia.
«La classica rissa di ferragosto, innescata seguendo tutti i dettami della tenzone poetica secondo le regole cortesi, da Dante in poi: proemio («bello, arzati un po’ alla svelta, quella lì è la mi’ macchina»), excusatio («Quale, questa? Te l’immagini, mi c’ero appoggiato un attimino, ’un ti ci stavo mìa sartando sopra»), accusatio manifesta («Appoggiato una sega, guardalì, è tutta graffiata, e ora?», provocatio («E ora disinfettala, sennò piglia ’r tetano»), petizione («Pigli per ir culo?»), catarsi («No no, è che de’, con settanta chili di merda che deve porta’ a giro tutte le sere, a veni’ un’infezione è un attimo»). E, quindi, giù botte, in quello stile grottesco e privo di tecnica che è di prammatica nel galateo delle risse estive» (pagine 107 e 108).
Se a metà della citazione vi siete dati per vinti, non fatevene una colpa.
La nuova avventura del BarLume s’infila nel fortunato filone comico/geriatrico che pare trovare riscontri inaspettati tra i lettori. Sarà che l’Italia è un Paese che invecchia, ma già Una sposa conveniente di Elsa Chabrol (Frassinelli, 2010) mi aveva dato modo di pensare che dei nostri nonni tolleriamo vizi e stramberie; ci sembrano comiche gag quando si accompagnano alla pensione, meno — e da sfigati — se i protagonisti stanno ancora accumulando contributi. Tuttavia, in quel libro l’ansia di far ridere non la si avvertiva, qui sì, tanto che La carta più alta sembra ricalcare la brutta abitudine di quei telefilm datati con le risate posticce. Il peggio è che spesso le trovate di Malvaldi sono cose già sentite, barzellette riesumate e riedite in salsa Sellerio. A questo punto urge un esempio pratico, ve ne posso fornire ben due.
Siamo a pagina 53 e un signore «padano» chiede un cappuccino a Massimo, il barista protagonista del romanzo. Pare sia orario insolito per la richiesta, Massimo non glielo serve, e poi il cliente è un tale di «Altezza media. Occhiali rettangolari, labbra inesistenti, capello pettinato con la riga a destra. Camicia maniche corte azzurra a righine bianche. Accento veneto. In poche parole, un rompicazzo» (pagina 54). Alla reiterata pretesa del cliente, Massimo è costretto ad accontentarlo, «il signore ha chiesto un cappuccino, il signore ottiene un cappuccino. Secondo la migliore tradizione dell’operoso Nord. Lavoro-guadagno-pago-pretendo. Quel che è giusto è giusto» (pagina 55). Eccolo allora a servigli un cappuccino con l’aggiunta di «un cazzo di cioccolato sulla schiuma» (pagina 56). All’ennesima lamentela del cliente, una buona dose di un farmaco antidiarroico sembra all’autore la miglior trovata per creare allegria, del resto quella del Guttalax da qualche parte l’avevamo già vista, magari in un film di Bombolo.
Comico che di certo avrà anche girato, forse con esiti migliori, lo sketch che Malvaldi ci propone nell’undicesimo capitolo, dove la scortese vicina di casa viene ripagata con la giusta moneta, «perché, sentendo un puzzo rivoltante di carogna andata a male che viene dal cesso, nessuno va a guardare nella tazza dello sciacquone» (pagina 137). É una mia impressione o Marco Malvaldi è un patito del trash?
Arrivati a questo punto, vorrei davvero tacere il fatto che l’editing mi è parso sottotono, liberissimi di rispondermi «cimportaunasega» (pagina 38), ma visto che ci siamo...
Trovare «[...] per le facce. Facciamoci [...]» (pagina 47) mi crea un fastidio a livello epidermico, ma anche leggere «Massimo si degustava la propria vendetta» (pagina 52) mi lascia l’amaro in bocca; due «motivi» spartiti in tre righe (pagina 122) e un mirabile «[...] o con un fegato in meno? A meno che il dottore [...]» (pagina 128) sono soltanto peccatucci, che, però, vanno ad aggiungersi a battute che non fanno ridere, a un personaggio — Tiziana, la banconista — completamente inutile ai fini dell’intreccio e un finale che si lascia leggere come il bugiardino di un medicinale. No, non l’antidiarroico sopracitato.
Mio marito dice che non posso stroncare anche questo libro: la cosa mi farebbe sembrare una zitella acida e lui non vuole fare la parte della signora Colombo. Ecco, quindi, che le lunghe dissertazioni letterarie — al capitolo otto, La natura delle cose di Lucrezio e, al tredicesimo, l’Ecclesiaste a cura di Erri De Luca — riescono a farmi rivalutare le trovate comiche del libro. Detto ciò, se Malvaldi mi offrisse un cappuccino, l’istinto di sopravvivenza mi consiglierebbe di rifiutarlo.
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