La bellezza nella complessità. “È da lì che viene la luce” di Emanuela E. Abbadessa
È da lì che viene la luce, uscito per Piemme nel febbraio 2019, è l’ultimo romanzo di Emanuela E. Abbadessa, già autrice del premiatissimo Capo Scirocco (Rizzoli 2013), vincitore del Premio Rapallo-Carige 2013 per la Donna Scrittrice e del Premio Internazionale Isola d’Elba Raffaello Brignetti, e di Fiammetta (Rizzoli 2016)arrivato secondo al Premio Giuseppe Dessì e al Premio Subiaco Città del Libro.
Per quest’ultima prova letteraria l’autrice si ispira alla storia del fotografo tedesco Wilhelm von Glöden di cui vedeva le foto ogni volta che da piccola andava a Taormina. Da lì, quando ha pensato al soggetto per un nuovo romanzo, ha immaginato la storia dietro all’autore di quelle fotografie. È così che nasce il barone Ludwig von Trier, un uomo distinto, sempre vestito in modo impeccabile, con il vezzo di «infarcire le sue frasi di termini tedeschi o francesi» pur conoscendone il corrispettivo italiano, forse per il desiderio di esser considerato misterioso ed esotico come sostiene Elena, sua fedele governante.
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È mentre scatta alcune fotografie ad Agata che Sebastiano Caruso vede per la prima volta l’uomo. La sua curiosità si accende quando nota la scatola misteriosa che lo sconosciuto stringe tra le mani. Quando il barone lo scopre nell’atto di seguirlo lo fa entrare nel suo mondo insegnandogli la fotografia e l’arte. Tra i due inizia un rapporto speciale che per Sebastiano ha i contorni dell’amicizia, pur non avendone molta esperienza. Il barone anche ha difficoltà a inquadrare il loro rapporto spesso confuso da sentimenti a cui non riesce a dare un nome finché la fedele governante non gli rivela il suo segreto: dietro la scelta di entrare in convento c’era lo scandalo provocato da una sua storia omosessuale avuta durate l’adolescenza.
A far da sfondo all’intera vicenda c’è l’Italia di Mussolini che con «mezzucci da attore» finge di possedere risposte a qualsiasi domanda. A Taormina la venerazione che alcuni hanno per il Duce è cieca.
«Era come se per tenersi al passo con quanto avveniva a Roma e non venire considerati meno importanti solo perché vivevano in un paese del quale sui giornali non si parlava mai, avessero pensato di dover essere più crudeli».
Il barone è «conscio di essere il rappresentante di una minoranza innocua ma temuta e, nonostante non avesse mai compiuto nessuna azione capace di provocare scandalo, temeva in ogni istante di essere sul punto di farlo».
A pochi giorni dal Pride (8 giugno 2019), una manifestazione che in tutto il mondo è un simbolo positivo contro la discriminazione e la violenza verso lesbiche, gay, bisessuali e transessuali per promuovere la loro autoaffermazione, dignità e uguaglianza di diritti, mi è sembrato che ricordare questa storia fosse particolarmente importante.
Siamo di nuovo in un periodo storico in cui spesso si corre il rischio di credere a chiunque ci dica di avere risposte a qualsiasi domanda. Come allora, l’idea che esista qualcuno «in grado di fornire soluzioni semplici a problemi complessi» e, attraverso quelle, sia il solo a poter dare «ordine, disciplina e potenza alla nazione» può allettare ma è allora che una storia così ci viene in aiuto per ricordarci che niente è come sembra e che in ogni situazione e persona ci sono diverse sfumature e chesono proprio queste sfumature la ricchezza.
«Nell’indignazione morale, si disse il barone, posando la tazza con la tisana sul piattino, c’era sempre anche la paura di somigliare ai diversi».
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Se c’è un merito in questo libro sicuramente è nello sfocare i contorni dei personaggi e dei sentimenti che essi provano. I quattro personaggi principali (il barone, la governante, Agata e Sebastiano) sono sfumature di un solo essere umano in cui spesso, nel corso della narrazione, è difficile capire dove finisca l’uno e dove inizi l’altro. E poi c’è la macchina fotografica, un mezzo tutto fuorché oggettivo, che ferma un momento e lo dota di significato. Grazie a È da lì che viene la luce il lettore fa esperienza, attraverso i personaggi, di quanto rimane fuori da questa cornice e di quanta complessità (e bellezza) si perda in un’ottica che, semplificando, tende a uniformare.
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