“La barzelletta ebraica” di Devorah Baum, conoscere l’ebraismo attraverso l’umorismo
La barzelletta ebraica di Devorah Baum, edito da Einaudi con la traduzione di Elena Loewenthal è, così come recita il sottotitolo, un saggio con esempi (meno saggio, più esempi).
L’autrice, insegnante di Letteratura inglese e Teoria critica presso l’Università di Southampton, con le centinaia di barzellette presenti nel volume intende illustrare la cultura ebraica approfondendo un aspetto che caratterizza questo popolo: l’umorismo. I motti di spirito, le storielle che affondano le proprie radici nella notte dei tempi, le battute che viaggiano di continente in continente sotto il giogo della diaspora sono fondamentali per l’identità ebraica e non sempre comprensibili o divertenti alle orecchie di un ascoltatore goyisch, un gentile, un non ebreo insomma.
Il compito del saggio di Baum è proprio quello di fare chiarezza, di catturare l’essenza dell’umorismo ebraico e di tradurla per una shiksa o uno shegetz affascinati dalla cultura ebraica, dalla lingua yiddish del premio Nobel Isaac Bashevis Singer, dalla comicità dei Fratelli Marx e da quelle irresistibili nevrosi dei personaggi di Woody Allen, da un umorismo che spesso è una corazza forgiata nel corso di secoli di persecuzioni e che altrettanto spesso sfugge alla comprensione poiché a mancare sono gli strumenti per assimilarla. Questo saggio fornisce proprio gli strumenti di base, esplorando gli elementi chiave dell’umorismo ebraico e invogliando anche il lettore meno esperto ad avvicinarsi a questa cultura.
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I titoli dei vari capitoli sono in forma di domanda e la risposta è da rintracciare all’interno delle varie barzellette. È certo, di primo acchito, che una delle qualità di questo popolo sta proprio nel fatto di riuscire a ridere di se stessi. Non a caso l’autocritica e la psicanalisi trovano terreno fertile nella barzelletta ebraica. A prevalere nell’umorismo ebraico è una visione dolorosa del mondo, un pessimismo di fondo che anziché generare negatività acquista verve comica. Di conseguenza a uno slancio vitale per esorcizzare la disperazione maturata in secoli di oppressione si impone soprattutto la necessità di ridere delle proprie sciagure:
Un inglese, uno scozzese e un ebreo sono seduti su una panchina, al parco.
L’inglese dice: «Sono stanco e ho sete, devo bere una birra».
Lo scozzese dice: «Sono stanco e ho sete, devo bere un whisky».
L’ebreo dice: «Sono stanco e ho sete, devo avere il diabete».
Si ha l’impressione di avere a che fare con un Harry Block (Harry a Pezzi) o l’Alvy Singer di Io e Annie ma perché no, anche con il derelitto e bistrattato Ugo Fantozzi. Eppure mentre lo sfortunato ragioniere è in fin dei conti, per dirla in yiddish, uno shlimazel, un uomo nato sotto una cattiva stella e del quale ridiamo provando quel riso amaro, quel sentimento del contrario teorizzato da Pirandello, il povero ebreo stanco e assetato è invece perseguitato da quel proverbiale senso di colpa che attanaglia tutta la sua esistenza. Baum afferma:
«Gli ebrei possono benissimo dimenticarsi di tutto eccetto il senso di colpa - perché quello ti dice che puoi dimenticare una storia quanto ti pare, ma quella continua a tenerti le mani intorno al collo».
Non si sfugge al senso di colpa ma ci si può convivere, mantenendo sempre un atteggiamento positivo, guardando il bicchiere mezzo pieno in qualsiasi avversità:
«La vera aspirazione di Mendel è di arrivare oltreoceano – in America:
Va a procurarsi un visto. «C’è una coda lunghissima per i visti», gli dice il funzionario, «le conviene tornare fra una decina d’anni».
«Ottimo», dice Mendel, «mattina o pomeriggio?».
L’argomento più esilarante di La barzelletta ebraica è sicuramente quello relativo alla figura della madre ebrea, donna castrante, invadente e generatrice di senso di colpa. Potremmo dire che tutto il mondo è paese e che, a partire dalle classiche mamme chiocce italiane, molta letteratura e tanta cinematografia dal mondo hanno avuto a che fare con madri ingombranti e orgogliose, in modo asfissiante, dei propri figli. Non a caso “ogni scarrafone è bello a mamma sua” eppure è evidente che la madre ebraica non la batte nessuno. È probabile che possa essere considerata la più amata dagli psichiatri dato che anni e anni di terapia non possono bastare per liberarsi dall’incombenza della sua presenza:
Mamma 1: «Mio figlio mi vuole così bene che mi compra continuamente dei regali».
Mamma 2: «Mio figlio mi vuole così bene che mi porta sempre in vacanza».
Mamma ebrea: «Roba da nulla. Mio figlio mi vuole così bene che va da un dottore speciale cinque volte a settimana, e gli parla soltanto di me».
Nel saggio in effetti viene spesso menzionato Lamento di Portonoy, il celebre e divertente romanzo di Philip Roth che in fondo può essere riassunto come un lunghissimo monologo sul lettino dell’analista, di un uomo – Alexander Portnoy – ossessionato dalla madre Sophie e protagonista indiscusso della barzelletta ebraica che è la sua vita.
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Woody Allen, Phillip Roth, Sacha Baron Cohen, Jonathan Safran Foer, Jerry Seinfeld sono solo alcune personalità che hanno dato un contributo fondamentale al mondo del cinema, della televisione e della letteratura e spesso per comprendere appieno le loro opere c’è bisogno di conoscere almeno in parte la cultura ebraica. Prestare attenzione a un compendio di barzellette come questo, oltre che approcciarsi all’umorismo ebraico permette di comprendere le sfumature e le sottigliezze che spesso risultano sconosciute o passano semplicemente inosservate ad esempio in serie tv di successo come Seinfield o i più recenti The Marvelous Mrs Maisol e Russian Doll. Ecco dunque uno dei motivi per cui il saggio La barzelletta ebraica di Devorah Baum merita di essere letto.
Per la prima foto, copyright: Zoltan Tasi su Unsplash.
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