La banalità del male in Medio Oriente. “Dawla” di Gabriele Del Grande
Analizzare, valutare, confrontarsi e interrogarsi ancora una volta sulla tanto celebre quanto incomprensibile “banalità del male”, intrecciando abilmente quattro storie che delineano un quadro pressoché completo sulla questione del Medio Oriente (e in particolare della Siria): questo è ciò che Gabriele Del Grande ci confessa essere l’intento ultimo di Dawla (Mondadori, 2018).
Le vicende di tre disertori del Dawla (il cosiddetto Stato Islamico) e di un prigioniero politico guidano il lettore attraverso antri bui e spaventosi, che aprono gli occhi su questioni spinose e quanto mai attuali, che mantengono alta la suspense pagina dopo pagina, ma che, con un realismo impressionante, fanno vivere concretamente sentimenti di angoscia, rabbia, incredulità, paura, pietà.
L’autore ci mostra come il male abbia un’origine e uno sviluppo per lo più semplice, lineare, e come dilaghi poi in modo epidermico: quello che colpisce è constatare la facilità con cui si espande, facendo leva sulle debolezze delle persone. Poi, diventa inarrestabile e incontrollabile. Il male è viscido, si insinua e, a un certo punto, non lo riconosci più. Siamo lontani dall’analisi di Eichmann della Arendt, eppure la banalità del male presentataci in Dawla è altrettanto disarmante e, per quanto diversa nelle apparenze, in fondo della stessa sostanza. Molti tra scrittori, filosofi o antropologi hanno cercato di darle un senso, una forma, simbolizzandola attraverso la messa in scena o il racconto, non potendola spiegare in modo analitico e razionale. E Gabriele Del Grande, giornalista italiano recluso per un periodo in un carcere turco, l’ha potuta toccare con mano, e ce ne dà testimonianza con un libro che lascia senza parole.
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Siamo catapultati nel cuore di una materia tanto attuale quanto nevralgica al giorno d’oggi, quella della Siria, contesa e straziata fra le forze del Dawla, quelle del governo di al-Asad e quelle dei ribelli al regime. L’autore si dilunga a spiegare dettagliatamente il contesto socio-politico e religioso dei Paesi del Medio Oriente, tratteggiando con chiarezza la ragnatela dei vari movimenti politici e religiosi, le etnie di appartenenza, le ragioni storiche che hanno portato alla situazione attuale. Intravediamo uno spaccato esauriente dei fatti così come stanno, ci ritroviamo spogliati da eventuali sovrastrutture o idee costruite ascoltando notizie sparse, interessate e talvolta poco autorevoli. A mano a mano che si avanza nella lettura, si ha la sensazione di addentrarsi in profondità in questo mondo stratificato e complessissimo, e di percepirne e svelarne gradualmente tutte le problematiche e le verità nascoste, procedendo, in questa scoperta, insieme ai protagonisti. Loro infatti, con noi, maturano determinate consapevolezze e modificano le loro idee e convinzioni originarie a seconda dei vari avvenimenti in cui si trovano coinvolti e di ciò che intuiscono.
Il primo protagonista che incontriamo è Ayham, giovane siriano sostenitore delle riforme democratiche contro il governo di al-Asad, catturato dai militari e finito a subire mostruose torture nel carcere di Saydnāyā. Egli rappresenta coloro che ritengono necessario protestare contro al-Asad, nella convinzione che il problema del Paese stia proprio nella spinta democratica bloccata da un regime punitivo capace di infliggere le torture più atroci a qualunque oppositore. Ma dire “oppositore” significa tutto e niente, in quanto al suo interno questo gruppo di “ribelli” non è omogeneo, bensì diviso tra chi protesta in modo pacifico, chi pensa si debba agire con la forza, armandosi, chi è laico, chi è religioso. Alcuni di essi, entrando in contatto con i salafiti, arrivano perfino a diventare dei radicali estremisti membri del Dawla (il Califfato, incaricato compiere il progetto di Dio in terra), e pensano che la democrazia, così come ogni altra forma di governo, non sia altro che una deviazione blasfema rispetto alla purezza del regno di Dio. Tra questi spicca la figura di Abū Mujāhid che, dopo un periodo in prigione a causa di manifestazioni contro al-Asad, entra gradualmente a far parte dello Stato Islamico e decide che la guerra religiosa contro il regime sia l’unica via possibile, anche a costo di opporsi a vecchi amici e parenti. La sua è una trasformazione impressionante e radicale (è la moglie stessa a non riconoscerlo più) in cui la dinamica del male si insinua perfettamente.
Ci viene presentata nel dettaglio l’organizzazione del Dawla, la severità degli addestramenti per entrare nelle sezioni più importanti e spietate, i bombardamenti, le azioni organizzate per colpire l’Europa, i segreti conosciuti solo da chi detiene il potere, le torture che anche loro, come il regime, compiono contro gli oppositori o gli infedeli, senza alcuna pietà. E, in parallelo, scopriamo il giro d’interessi che sta dietro a tutto questo, veniamo a conoscenza del fatto che c’è chi è mosso solo dalla sete di potere, dalla sete di vendetta, dal desiderio di affermazione, dal desiderio di ricchezza e forza. C’è chi è pronto a tutto pur di arricchirsi, sfruttando la situazione, senza avere un briciolo d’integrità: trafficanti di persone, di passaporti (per far passare la gente dall’Europa alla Siria), di pezzi archeologici o artistici. C’è chi si professa musulmano solo per arrivare ai vertici del potere, ma in realtà è tutto fuorché rispettoso dei dettami di quella religione, come Abū Usāma che, pur non essendo un vero credente, capisce che entrare nel Dawla può garantirgli ricchezza e potere. Nella sua “arrampicata sociale”, egli arriva addirittura ad essere candidato alla Sicurezza Segreta del Califfato. Anche lui però si renderà conto di essere solo una piccola pedina (da eliminare qualora non più utile) in una scacchiera molto più grande di lui.
Abū Karīm, infine, rappresenta la parabola inversa di coloro che cominciano la loro storia da credenti convintissimi della purezza dell’Islam, della jihad, della necessità di convertire o eliminare gli infedeli, salvo poi, però, una volta inseriti nel meccanismo, rendersi conto del livello di compromissione dilagante anche all’interno del Dawla, fino a maturare odio e ripudio verso lo Stato Islamico e i suoi membri.
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Dawla è un libro incredibilmente ben strutturato, perché oltre a fornire un quadro generale di riferimento che tutti dovrebbero conoscere, riesce anche a conferire all’opera un che di romanzesco, rendendo il lettore partecipe e curioso di conoscere la storia intima dei personaggi, quasi fossero storie da romanzo. Riesce, insomma, a unire l’importanza di un’inchiesta autorevole a un intreccio ben composto che non annoia mai il lettore, ma anzi, lo tiene incollato al libro, avido di scoprire il destino dei protagonisti che hanno respiro e credibilità. Ci racconta i sentimenti, i pensieri, le indecisioni, i dubbi, i desideri personali, le credenze più intime e forti, le convinzioni, le furberie. In realtà, però, nulla è inventato. Quelle che leggiamo sono storie vere, reali, vissute, e questo arriva in modo forte e chiaro: ce li immaginiamo camminare per le vie, riflettere, insospettirsi, arrabbiarsi, soffrire fisicamente e moralmente. Sono quattro “tipi umani” così differenti da compendiare in sé quasi tutto il dicibile sulla questione.
Ciò che resta chiaro nella mente del lettore, alla fine di ogni storia, è che l’uomo è uomo ovunque, che certe dinamiche si ripetono sempre uguali, solo in contesti e forme diversi. Che la corruzione serpeggia dappertutto. Che la banalità del male è tanto incomprensibile quanto sinuosa, facile e dilagante. Che il primo peccato è la disinformazione e la noncuranza. Che siamo tutti in sospeso tra convinzioni pure e sincere e desiderio di potere e compromesso. Che la scelta ultima, è in mano ad ognuno di noi. Che per cambiare un sistema si deve partire dalla singola coscienza.
Un libro perfetto per informare la gente su questioni urgenti in modo coinvolgente. Un libro da leggere.
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