L’uomo come «storia delle storie» tra ordine prestabilito e caos rivendicato
La vita sulla terra è storia delle storie, la più complessa senz’altro da circa duecentomila anni. Costretto a sfide imprevedibili, talvolta alla resa e talaltra protagonista di sorprendenti vittorie, l’uomo ha sentito il bisogno impellente di narrare e narrarsi, trovare il motivo soggiacente di tutte le cose e incastrarle entro una cornice che si è arricchita di elementi sempre nuovi: il “mito”, traccia di un mondo che, nelle bugie delle sue costruzioni, possiede la verità dell’immediatezza.
L’essere umano, individualità spaesata e curiosa, ha cercato la strada raccontando e raccontandosi; rintracciato dei perché anche in mezze verità, o storie assurde, comunque in grado di motivare l’improvvisa comparsa sulla terra, il suo rapporto con gli altri, siano essi alberi da frutto, bestie feroci o inspiegabili eventi atmosferici.
«Le fiabe sono nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane – scriveva Italo Calvino nell’Introduzione a Fiabe Italiane del 1956– una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento rumino delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi d’un destino».
Affini ma non identiche al mito nella struttura e nelle finalità, le fiabe rispondono anch’esse a particolari esigenze dell’animo umano e sono specchio di questa cornice, grazie alla quale l’uomo ha categorizzato la realtà, le prime e le nuove esperienze, in un processo che si ripete all’infinito, seppur in forme diverse: il racconto, la nostra storia, questa narrazione alla quale riesce impossibile sottrarsi, non è terminato, e ancor oggi viene spontaneo, è quasi obbligatorio talvolta, attribuire alla dimensione del “non so” cause e conseguenze; racconti, superstizioni e credenze popolari, che accomunano, dividono, e prima di tutto motivano, ne sono un esempio.
Queste storie più o meno complesse – tra le quali rientra e spicca sicuramente buona parte della letteratura religiosa – possono appartenere, per giunta, a comunità davvero molto ampie e distanti tra loro; presupponendo, infatti, uno stato di cose primordiale in cui la conoscenza dell’essere umano fosse nulla o quasi, non è azzardato ipotizzare che, seppur sottoposti a stimoli ambientali e culturali diversi, i gruppi sociali abbiano cercato di dare un senso alla realtà più o meno con le medesime procedure.
Grandi cambiamenti, dunque, ma fino a un certo punto: l’antropologo Marcello Arduini nel suo Il filo del racconto ha spiegato che diverse fiabe dell’Alto Lazio sono presenti anche nelle culture dell’Europa del Nord e del Mediterraneo; Maria Federico con Rappresentazioni dell’alterità nella letteratura popolare: uno studio di caso ha messo in evidenza che non pochi sono gli elementi comuni attorno ai quali ruotano le storie dell’umanità; punti fermi su cui l’antropologo Alberto Sobrero ha insistito, scrivendo nel suo Il cristallo e la fiamma che «[…] proprio il motivo “Davide contro Golia”, […] l’enfant savant, il bambino che ne sa più dell’adulto […] deve aver fatto più volte e in varie vesti il giro d’Europa, ma il fatto interessante è che lo ritroviamo fra gli indiani delle pianure americane e in molte letterature orali africane (è ad esempio diffusissimo a Capo Verde)»; Gesù Cristo – va aggiunto – parlava non soltanto ai poveri, ma anche ai dottori del tempio.
Barriere spazio-temporali abbattute, insomma, da miti, fiabe e leggende. Ma tutto cambia e nulla resta immobile, se non il ricordo di quel tempo che fu: alla fissità e alla monotonia di un mondo dominato da fenomeni naturali inspiegabili, e poi attribuiti inscindibilmente agli dei, artefici di tutte le cose e comunque incuranti delle vicende umane; a questo stato di cose che mai muta e rispetto al quale l’uomo è poco e niente, è subentrata la dinamicità dell’essere presenti non in qualità di spettatori, ma di attori, e, infine, di autori; il rapporto con il mondo è cambiato, e con questo la modalità della narrazione: la varietas del romanzo post-moderno, con i suoi mille volti e altrettanti stili ne è solo un esempio; si spiega così, tra l’altro, la nascita del romanzo realista, che poi è nascita di coscienza, e contemporanea disgregazione dell’epos, l’approdo a una fase in cui l’uomo ride persino di sé, «così da darci l’impressione – prosegue Sobrero – di osservare dall’alto una scena d’impedimento, frustrazione o assurdità».
Cambiano le storie, cambiano le gesta e cambiano anche gli eroi: l’uomo è alle prese con se stesso e i suoi conflitti interiori; impaurito, indaga, cercando di trovare un perché non sempre in una dimensione del «non so» che spiega tutto e niente al tempo stesso; il nuovo protagonista è immerso in una quotidianità che è sì la più grande battaglia, forse la più difficile di tutte, ma non ha nulla a che vedere con forze sovrannaturali, semi-dei e divinità.
«A un estremo – scrive Alberto Sobrero, commentando Anatomy of Criticism del critico letterario Northrop Frye – la sensazione di un mondo che sovrasta: l’uomo si sente poca cosa, misura la sua pochezza di fronte a forze che deve limitarsi a osservare con meraviglia. Per secoli, in questa prima fase del mythos[l’insieme delle narrazioni attraverso le quali una comunità ha dato un perché al mondo, ndr], i racconti mitologici governano il mondo, fondano mondi, sono storie senza autore, senza narratore, storie […], miti e poemi che narrano di fatti, sentimenti e motivi che l’uomo non può contribuire in nulla a determinare. […] Nelle storie che seguono […] l’eroe diventa uno come noi, un uomo che può vincere o perdere senza che questo cambi di molto la sua condizione di esistenza».
Da una parte la dinamicità irrefrenabile del presente; dall’altra, la fissità indistruttibile del passato. Entrambe le dimensioni, però, non si escludono ma si completano a vicenda, e non solo nel Nuovo Millennio: l’uomo è in questo stato continuo di cose, in bilico e in tensione tra due poli opposti, molto spesso incapace di narrare e narrarsi, perché tutto sembra sfuggirgli di mano, impossibilitato, com’è, a vivere e viversi pienamente; incastrato nella dittatura di una società e una cultura che sembra accettare tutti, ma nella quale tutti finiscono per sentirsi estranei; immerso in un mondo dato nei suoi schemi e immobile nei suoi pregiudizi e nelle sue regole, cerca di costruire una propria identità, portando avanti progetti e sottraendosi, talvolta, al già dato; alla fissità indistruttibile, insomma, reagisce, quando vuole e se può, con tutte le sue forze:
«Quindi – scrive Northrop Frye nelle ultime pagine di Anatomy – mentre la produzione della cultura può essere, come avviene per il rito, una imitazione semivolontaria dei ritmi o dei processi organici [un’accettazione dello stato delle cose ndr], la risposta o la reazione alla cultura è un atto rivoluzionario di presa di coscienza».
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