L’uomo che tornò mille anni indietro. “Jungle Rudy” di Jan Brokken
Jungle Rudy racconta due storie: quella di Rudy Truffino, un avventuriero olandese di origini italiane che, intorno ai ventisette anni, ha lasciato l’Europa per andare a vivere nella foresta tropicale venezuelana insieme agli indios pemón, e quella dell’autore, Jan Brokken, che intorno alla metà degli anni Novanta ha seguito in Sud America le tracce di Truffino, tentando di ricostruire la sua storia. Questa biografia letteraria o libro di viaggio che dir si voglia, pubblicato nel 1999 in Olanda e finalmente tradotto in italiano da Claudia Cozzi per Iperborea, pone davanti agli occhi del lettore un fatto inequivocabile che sempre più spesso fatichiamo a mettere a fuoco: il nostro modo di vivere non è l’unico possibile e non è detto che sia il migliore.
La concezione del mondo dei pemón ruota intorno al concetto di canaima, che vuol dire sia “male” che “vendetta”: per loro lo spirito maligno si manifesta nella forma di una persona che cerca vendetta. L’unico modo per poter neutralizzare la canaima è offrire allo straniero da mangiare: la sola possibilità per sconfiggere la paura è l’accoglienza. I pemón si tengono a debita distanza gli uni dagli altri, vivono in assembramenti formati da non più di una dozzina di famiglie, tentando così di prevenire i conflitti. Gli atti di violenza sono puniti con l’esilio. Passano le serate a parlare, ore e ore raccontando antiche leggende che finiscono per trasformarsi in canto.
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Nelle loro comunità non ci sono forme di potere stabile. Il potere decisionale viene assunto solo in situazioni di emergenza, quando, per esempio, ci sono da gestire delle controversie. Ancora più significativa è l’assenza della proprietà privata: una lancia è mia nel momento in cui mi serve; quando ho finito di utilizzarla, la appoggio per terra e torna a disposizione di chi ne ha bisogno. D’altra parte, i pemón restano una comunità nomade e viaggiano con il minimo indispensabile. «Che senso aveva possedere tante cose?», scrive Brokken. «Più ne accumulavano, più se ne sarebbero dovute trascinare dietro una volta che il suolo fosse inaridito e fosse giunto il momento di trovare un altro conuco.» Il matrimonio non esiste, una donna che si stufa del compagno non deve far altro che spostare l’amaca qualche metro più lontano.
Brokken stesso, l’altro protagonista dell’opera, entra in questo mondo, quarant’anni dopo l’arrivo di Truffino in Venezuela, con la curiosità di chi si è reso conto di avere tra le mani qualcosa di grosso. Voleva vedere la leggenda in carne e ossa, sentirlo parlare, ridere, imprecare, vedere con i suoi occhi «quel corpo temprato da quarant’anni di vita nella giungla».
La voce narrante guida il lettore in questo viaggio con dovizia di dettagli, raccontando il suo umore, lo stupore di fronte a una natura che esige rispetto e che, in fondo, non chiede altro che il suo mistero rimanga intatto. Sullo sfondo, nel racconto al passato, un mondo che rischia di esplodere per gli effetti di una guerra che fino alla fine degli anni Ottanta sembrava tutt’altro che fredda. La natura impone il suo ritmo, costringe alla lentezza, richiede tempo, pretende attenzione e fatica. Per quanto lontano per temperatura e paesaggi, Jungle Rudy richiama alla mente quella Lezione del freddo con cui Roberto Casati tanto ci ha dato da riflettere sul finire dello scorso anno. Per poter vivere nella foresta, come alle estreme temperature del New Hampshire, sono necessari studio, preparazione e organizzazione. Diverse sono le persone che hanno perso la vita tra le foreste della Gran Sabana, sulle mesas del Venezuela sud-orientale, nelle acque dei suoi fiumi impetuosi.
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Come il volume di Casati, il libro di Brokken è corredato di fotografie in bianco e nero: alcune sono tratte dall’archivio di Rudy Truffino, altre sono state scattate dall’autore stesso. Una di queste – quella che è stata scelta per la copertina – è stata scattata sull’Auyán Tepui durante la prima spedizione delle orchidee nel 1963. Truffino, colto di profilo, ha in testa un cappello, tra le labbra una sigaretta accesa, tra le dita un’orchidea, sullo sfondo quella montagna a cima piatta che non a caso i pemón chiamano la “casa degli Dei”. Non ha uno sguardo sereno; piuttosto, pare concentrato, come se stesse cercando qualcosa che ancora non è riuscito a trovare.
Per la prima foto, l'autore è Paolo Costa Baldi e la fonte è Wikipedia.
Per la terza foto, l'autore è Vera de Kok e la fonte è Wikipedia.
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