L’universo interiore che ci abita raccontato da Daniela Gambaro
Essere al mondo è semplice e insieme complesso. Siamo appiattiti nei ruoli che ci diamo e che ci danno, siamo forme mutevoli che prendono le distanze dalle cose e dalle persone per poi ricaderci dentro: dentro noi, dentro gli altri.
Ogni tanto una crepa, una parte che scricchiola, poi la ricomposizione in un universo caleidoscopico, in cui ognuno, con la sua diversa unicità, si rispecchia nell’altro alla ricerca di sé, del suo vero volto, della sua essenza, delle sue mancanze e dei propri punti di forza. Qualcuno diceva che siamo nel mondo, ma non del mondo, eppure esso ci appartiene e il dolore dell’altro risuona nel nostro, così come tutti i sentimenti e le percezioni cui siamo costretti, anche quando non vorremmo.
Si tratta di empatia: nessuna qualità più si adatta a collocare Daniela Gambaro, nativa di Adria, romana per adozione, finalista con menzione di Merito al Premio Calvino 32^ edizione, vincitrice del premio Campiello opera prima 2021.
Stupisce che il doppio prestigioso riconoscimento le sia giunto con una silloge di racconti, Dieci storie quasi vere, Nutrimenti 2021, in una realtà editoriale, quale quella italiana, in cui il racconto fatica ad affermarsi.
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Il segreto sta nella capacità di entrare in sintonia con se stessa e con l’altro, nella penna agile e pur attenta al dettaglio, nella cura dei particolari senza smarrire l’intero, nel dare voce ai personaggi, soprattutto donne, ma in compagnia di uomini – padri, nonni, giardinieri, amici di infanzia… – immerse nel loro mondo.
Si tratta di una letteratura al femminile, quella che amo sopra ogni altra, che mi risuona, che mi fa sentire dentro la storia, spettatrice e protagonista, adulta e bambina, amante e moglie, madre e sorella, amica delle amiche. La Gambaro è tutto questo, capace di cogliere l’universo interiore che ci abita, anche nel quotidiano, che ci smarrisce e ci toglie il respiro, con un riguardo delicato all’accoglimento anche del dolore, accompagnato da una sottile ironia, che mi ricorda Giuseppe Berto, in questo maestro assoluto.
Storie fotografate nel quotidiano, colte in un punto di partenza, in un andirivieni temporale, che non portano a un finale conchiuso, ma restano aperte, come la vita che ci coglie sempre impreparati a farci carico di ciò che abbiamo in sorte. Non c’è una soluzione, perché la vita non l’ha; è un passare da una vicenda all’altra, sempre con qualcosa di sospeso, da riparare, da modificare, da annullare per rinascere, per passare ad altro, transitando per le esperienze, che lasciano tracce, vuoti, mancanze, ma anche pienezze.
Credo che queste storie nascano dalla realtà, da confidenze ricevute, da dati di fatto di cui si è a conoscenza, da esperienze autobiografiche, come si desume anche da qualche termine tratto dal dialetto; uno, Giavasco, dà il titolo al primo racconto. Come rendere meglio la parola bosco, selva, per una scrittrice veneta? Ha certo un valore simbolico, che è il fil rouge della raccolta: si tratta di quel guazzabuglio che è il cuore umano, intricato, complesso, dove si depositano le memorie che riemergono, i sogni infranti e quelli conseguiti, le crepe che diventano punti di luce, le passioni che agitano, “affannano e consolano”. Questo sottosuolo che ci abita dà voce allo sconosciuto, all’inconfessabile, al dolore non disgiunto dal piacere della vita.
Il mondo di Daniela Gambaro è di ascolto e di traduzione in parole della complessità semplice della vita, dei turbamenti del primo amore, Giavasco, con tutte le paure del caso, ma anche la gioia della scoperta. Poi c’è una tartaruga che non si trova più nel giardino di una famiglia in fase di trasloco; di qui la ricerca affidata a un giardiniere, la figura maschile che più ho amato, per la sua capacità di accogliere confidenze della padrona di casa e farle proprie. Sembra che tutto sia facile: si recita una parte e tutti contenti e felici; in primis, la società, che ci vuole mascherati.
La scrittrice non ci sta; ricerca una mente libera: la vedo incarnata nel racconto L’ultima dei Moicani, una donna, raccontata dalla figlia, che nutre una passione smodata per i Nativi di America. Questa cozza col mondo, vive incompresa, fuori schema, ma non si cura del pensiero altrui; in fondo, la vita è questa: avere una passione e coltivarla mettendo in atto il proprio potenziale umano, a qualsiasi costo. Ma chi lo fa? Certo la donna più dell’uomo, anch’egli vittima e artefice del patriarcato; basti pensare che ai maschi nel mondo greco era vietato piangere e Achille, che dà ampio sfogo al suo sentire, anche attraverso il pianto, non era certo considerato uno sano di mente.
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Qui, in questa raccolta, l’interiore trova una voce, più voci, sono quelle di chi vorrebbe una vita autentica, ma sono schiacchiate dal giudizio sociale: una madre che non può avere un terzo figlio e resta incompresa: in fondo ne ha già due! Ma il singolo, questa unicità diversa, reclama il suo spazio e lo trova nella penna della scrittrice. Una madre dimentica la figlia in macchina e la ritrova morta: come può accadere? Eppure, accade. Qui si sente forte il dolore che non dà scampo né a chi lo vive, né a chi scrive, né a chi legge. Ci sono sofferenze senza via di uscita, inutile la vacanza a La Llorona, una spiaggia messicana: qui è forte e insopportabile la mancanza unita al senso di colpa. Una colpa che è da rimandare alla società che ci costringe a ritmi frenetici e assunzioni di ruoli. E se lasciassimo da parte il giudizio? Ecco, questa mi sembra la via indicata dalla Gambaro: la sospensione del giudizio, il fluire ondeggiando da un vissuto all’altro, senza una vera conclusione, perché la vita non la si giudica, la si vive.
Ho appreso tanto da queste storie che potrebbero essere vere e in parte lo sono ricorrenti nei racconti, sono resistenti e tenaci, ma piangono; sì, anche le tartarughe piangono, proprio come le Donne empatiche.
Per la prima foto, copyright: Zoltan Tasi su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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