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"L'undicesimo comandamento" e l'ansia di vivere sempre connessi. Intervista a Niccolò Zancan

"L'undicesimo comandamento" e l'ansia di vivere sempre connessi. Intervista a Niccolò ZancanL'undicesimo comandamento (Sperling&Kupfer, 2017) è il nuovo romanzo di Niccolò Zancan, giornalista e scrittore torinese molto attento ai problemi della società contemporanea. Se infatti nel suo romanzo precedente Ti mando un bacio (Sperling&Kupfer, 2015) affrontava il tema della difficoltà di vivere di tanti padri separati, in questo nuovo libro si parla molto dell'ansia da connessione continua che si diffonde a macchia d'olio tra chi, per ragioni professionali, trascorre le proprie giornate con lo smartphone sempre acceso a portata di mano.

Andrea Marai, il protagonista, è anche un po' un alter ego dell'autore, almeno un partenza, visto che è un giornalista affermato che vive a Torino. Appare soddisfatto del suo percorso professionale, soprattutto perché sta per vincere un prestigioso Premio, che lo porterà al top della categoria; tuttavia, al di là della facciata, si intuiscono subito tutte le sue insoddisfazioni: il matrimonio con Francesca si sta disgregando nella vana ricerca di un figlio che non arriva, le avventure con altre donne non sono poi così appaganti, il migliore amico e collega Marino se n'è andato in circostanze poco chiare.

La vita quotidiana, soprattutto, sembra troppo spesso legata alla consultazione frenetica dei messaggi che riceve sullo smartphone, alla paura di perdere una telefonata importante o una notizia che potrebbe diventare il prossimo scoop.

Ma ecco che, improvvisamente, il corpo minato dallo stress tradisce Andrea, facendolo collassare proprio sul palco dove sta ricevendo il Premio tanto agognato e costringendolo a un ricovero ospedaliero per capire cosa si sia inceppato nei suoi meccanismi.

Questo evento diventa la scintilla che porta il protagonista a compiere una serie di scelte drastiche, a fare tabula rasa di molte presunte certezze, ma anche a ricostruirsi una personalità migliore.

Niccolò Zancan ha risposto alle domande dei blogger pochi giorni fa a Milano.

 

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Leggendo il suo romanzo, non ho potuto non pensare a quello che era, almeno in parte, il messaggio del libro Into the Wild. In entrambi ho trovato la ricerca di silenzio e di distacco, e anche il rifiuto del ritmo accelerato e dell'iperconnessione che caratterizzano la nostra vita oggi. Quanto c'è di personale in un romanzo in cui il protagonista scappa da un'esistenza frenetica per poter tornare adessere se stesso?

Grazie per questo paragone, perchè ho visto il film tratto da Into the Wild su un treno, di notte, mentre andavo in Svezia, e lo ricordo come emozionante ancora adesso: musica e immagini splendide. Into the Wild è sicuramente il grande libro del ritorno alla natura, e anche il mio romanzo in qualche modo tratta questo tema.

Io, purtroppo, sono un metropolitano nevrotico e sento questa cosa come un grosso problema personale: la fortuna e la bellezza di poter scrivere per me è anche cercare di immaginare qualcosa di diverso.

Ho provato ad attraversare quei boschi, a immergermi in quella natura di cui volevo poter scrivere al meglio, e quindi, pur restandoda questo lato della barricata, con il mio smartphone accanto come tutti voi, è vero anche che credo che siamo arrivati sull'orlo della follia.

L'undicesimo comandamento è quello che ci ordina di essere "performanti", sebbenequesta parola mi sembriorribile, e di successo, sempre all'altezza della situazione, e ci porta alla follia di una vita così.

Un'altra cosa che faccio fatica ad accettare è che ora il concetto di felicità sia strettamente legato al successo: come se fossimo tutti davanti a un locale in cui si sta svolgendo una festa, dove è il buttafuori a decidere chi entra e chi no, e per la quale bisogna sempre essere in lista per poter entrare, perché se non entri non ti diverti e non sei accettato socialmente.

Io in fondo sono stato fortunato, sono nato in una famiglia che mi ha sostenutoeconomicamente finché non ho potuto permettermi di fare il lavoro che volevo, ma resto convinto della follia contemporanea.

Mi hanno appassionato le storie di quei ragazzi che hanno scelto di partire con le greggi e tornare a fare i pastori: arrivo a dire che forse siamo vicini a una sorta di rinascita hippie.Il problema è che ora viene commercializzato anche il ritorno alla natura, vai nell'hotel che ti garantisce il riposo assoluto lontano dal mondo, ma ti fornisce pur sempre il wifi gratuito...

 

Ma non è un po' un paradosso il fatto che a fronte di tutta quest'ansia di farsi notare, a partire da quelli che scrivono idiozie sui social pur di farsi leggere, in realtà sono sempre meno quelli che possono effettivamente considerarsi persone arrivate e di successo?

Innanzitutto bisogna stabilire cosa sia effettivamente il successo, perchè ora come ora è una cosa troppo identificata con la visibilità. Tu puoi essere una persona che lavora e produce ottime cose, ottenendo il tuo successo personale, anche se non sei famoso.

Mi rendo conto che la maggior parte delle persone in realtà non legge quello che scrivo sul giornale online o sui social, mette magari "mi piace" pochi secondi dopo che ho pubblicato un post, la cui lettura richiederebbe come minimo due o tre minuti, quindi si basa al massimo sul titolo, e poi capita che aggiunga commenti del tutto a sproposito.

Per questo io ho tre regole di sopravvivenza personale: non rispondo mai a questo genere di critiche o commenti da parte di chi evidentemente non mi ha letto, non uso mai i social network per parlare male di qualcuno o di qualcosa, anche se ho le mie insofferenze, e poi cerco di ricordarmi come la visibilità sia diventata un concetto fuori dai paramentri normali.

Siamo in mezzo a una crisi generale dei valori occidentali e nel mio piccolo, in questo libro, ho cercato di raccontare la storia di uno che crede in tutto quello che gli hanno raccontato fino a quel momento in fatto di valori e di compensi, ma a un certo punto crolla.

 

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Una scena emblematica è quella che vede Andrea in ospedale, alla disperata ricerca di un malessere fisico che giustifichi il suo crollo, con il fastidio di fronte a un medico che gli dice che lui, fisicamente, sta benissimo. Andrea in realtà vorrebbe essere davvero malato: non può accettare che sia solo una manifestazione di un disagio psicologico, perchè questo lo porterebbe a un esame di coscienza molto più faticoso.

Credo che oggi ci sia soprattutto un forte bisogno di un ritorno alla fisicità, al concreto.

Ho resistito per un po' all'uso dei social perché so di avere una certa propensione a farmi trascinare verso l'eccesso, come quando fumavo e ho deciso di smettere prima di passare certi limiti.

Su Twitter mi dicevano che era impensabile che ne restassi fuori, ma alla fine la mia impressione riguardo ai social è che si tratti di una gran "commedia della vita", come sostenevaDavid Linch. Ciascuno cerca di dare il meglio di se stesso, a partire dalle foto e da quello che dice, però è sempre un mondo distante, dove non ci si tocca e non ci si confronta.

Fabio Geda ha fatto un bellissimo intervento a Torino sul bisogno di sentire il sudore, la fatica e la stanchezza dopo che hai camminato, e questo è anche il mio pensiero.Alla fine della giornata voglio sentirmi stanco a livello fisico, ad esmpio se ho camminato per quattordici chilometri, e non ritrovarmi gli occhi che bruciano perché sono stato per ore allo schermo del computer. Internet tende a escludere l'imperfezione, che però fa parte della nostra realtà.

"L'undicesimo comandamento" e l'ansia di vivere sempre connessi. Intervista a Niccolò Zancan

Ma quindi cos'è il malessere?

Credo che sia una brutta condizione di vita. Ti ammali di dipendenza costruendoti una vita che in realtà non è davvero la tua. Non voglio sembrare vecchio o reazionario, perchè anch'io uso questi mezzi come tutti, ma credo proprio che si stia esagerando, soprattutto riguardo alla richiesta di essere sempre connessi e disponibili.

Vero è che uno dei messaggi di Into the Wild era che la felicità è reale solo se è condivisa: una cosa sacrosanta, che capisco, ma ora siamo arrivati all'eccesso.Ora sembra che nulla sia reale se non viene mostrato online, a conoscenti e, soprattutto, a sconosciuti. Sei persino incapace di vivere il luogo che stai visitando se non ti affanni subito a mandare mille fotografie sui social.

 

Quante ore riesce effettivamente a stare con il telefono spento?

Per scrivere questo libro, ho fatto proprio così, visto che volevo descrivere l'esperienza di una persona che cerca di liberarsi dalle schiavitù digitali. Non ci sono riuscito del tutto e,anzi, questa esperienza mi ha dato modo di vedere quelli che sono sintomi di una vera e propria nevrosi: mi sono reso conto che cercare di allargare una foto con le dita da un giornale perché si è abituati a farlo sullo schermo dello smartphone non è tanto normale.

Il telefono diventa un arto, e quando ce ne separiamo ci sentiamo come se ci mancasse una parte di noi.Comunque nel libro non c'è solo questo, ma anche molto altro. È tutto il sistema dei valori del protagonista che va in frantumi.

 

Uno dei fattori scatenanti della crisi di Andrea sembra essere la morte improvvisa di Martino, il suo migliore amico e collega più fidato, che aveva un ruolo molto importante: era quello che gli correggeva gli errori. In questo senso, con la morte di Martino ad Andrea viene a mancare la figura che gli impedisce di sbagliare, proprio quando professionalmente sta per raggiungere la vetta e quindi ne avrebbe più bisogno. È stata una scelta precisa, o è qualcosa di cui si è reso conto una volta scritto il romanzo?

È una cosa vabbastanza voluta, sì. Credo che ognuno di noi abbia avuto o abbia ancora un amico di talento che si è perso. Io, che sono uno che ha sempre paura un po' di tutto, mi domando sempre quale sia il momento in cui una persona in gamba e di talento si smarrisce, quindi da un lato mi interessava seguire la figura di Martino, che pur essendo un giornalista di talento a un certo punto ha smesso di scrivere, e si  è perduto nell'oscurità, dall'altro vedere cosa sarebbe accaduto ad Andrea perdendo il suo punto di riferimento: in fondo Martino per lui era come un fratello, e iocredo molto nelle famiglie che si formano spontaneamente.

 

Come ha vissuto il passaggio da giornalista a romanziere, e come continua a vivere queste due diverse forme di scrittura?

Sicuramente provare a scrivere romanzi mi ha aiutato a essere un giornalista migliore.

È talmente più difficile scrivere un romanzo, che ora mi viene molto più semplice scrivere un articolo di centoventi righe, ho acquisito di sicuro maggiore sicurezza nel mio mestiere.La sfida di riuscire a scrivere un'opera compiuta di duecentocinquanta pagine è molto più grande! D'altra parte, il giornalismo mi è servito perché mi piace scrivere di cose che conosco e che tocco con mano, e so che gli articoli migliori che puoi scrivere sono quelli redatti dopo che ti sei calato a lungo nell'argomento. Se cammini tutto il giorno immerso nella realtà, guardandoti intorno e parlando con le persone, scriverai pagine migliori. L'ho fatto per Ti mando un bacio e l'ho fatto anche per L'undicesimo comandamento. Devi cercare di vedere le cose che descrivi, e di stare molto a contatto con la materia di cui ti occupi.

"L'undicesimo comandamento" e l'ansia di vivere sempre connessi. Intervista a Niccolò Zancan

Chi ha scelto la copertina?

È stata molto discussa: l'immagine di partenza era comunque di un bosco, ma nei colori autunnali. Io invece ho voluto quella di un bosco verde, primaverile, perché la storia si svolge dall'inverno al principio dell'estate, e poi perché è la storia di una rinascita, di una

fioritura del personaggio.

 

C'è una frase bellissima nel romanzo in cui Andrea ricorda come da ragazzino gli avessero detto che ogni fase buia e dolorosa della vita fosse simile a una galleria: devi attraversarla tutta, e alla fine esci nella luce. Ora, chi glielo diceva da bambino quando parlava di luce si riferiva a Dio. Nel nostro mondo è venuta un po' a mancare l'assoluta garanzia data da tutto quell'insieme di norme e convinzioni legate alla fede religiosa: siamo più liberi di scegliere, ma anche più a rischio di sbagliare e di perderci, o di non sapere davvero cosa vogliamo. A qualcuno come Andrea, trovare una fede profonda in qualcosa di astratto come la religione, potrebbe aiutare il suo percorso di rinascita, o forse lo disorienterebbeancora di più?

Credo che alla fine del suo percorso Andrea trovi qualcosa di simile alla fede assoluta.Però non è qualcosa che riesco ad afferrare personalmente, e nemmeno lui ci riesce.Possiamo dire che capisce che non si salverà mai da solo, e che anzi, se bisogna credere in qualcosa, sicuramente bisogna credere negli amici e nel lorovenirti a salvare.

Anch'io credo in quella che forse posso definire la religione degli amici, nel bisogno di aiutare e farsi aiutare da chi ci sta accanto. Credo molto poi nel potere curativo della natura e nella sua bellezza, nell'importanza dello stare insieme e della fisicità, ma sicuramente nella totale libertà in cui ci si ritrova, senza punti di riferimento, succede anche che le persone hanno maggiori possibilità di perdersi, e non so se questo sia meglio o sia peggio.

 

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Cosa pensano i suoi colleghi del giornale di questa sua raffigurazione del mondo giornalistico?

Non l'ho ancora fatto leggere a nessuno di loro e sono terrorizzato da questa cosa!

In realtà, spero che capiscano l'amore che porto per questo mondo, che oggi tende a scomparire, e anche la gratitudine per un mestiere che in questo momento è molto in discussione, ma questo si accorda col protagonista che è anche lui tanto in difficoltà.


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Per la prima foto, copyright: Lina Yatsen.

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