L’ultimo romanzo del maestro della spy story. “Il fattore umano” di Graham Greene
Ultima opera di Graham Greene del 1978, Il fattore umano (appena pubblicato da Sellerio nella traduzione di Adriana Bottini) riassumele tematiche care all'autore: la moralità, il senso del dovere e dell’appartenenza, il rapporto con la religione.
L’ambientazione è spartana: un ufficio del Ministero degli esteri, il famigerato MI6, dove due funzionari, Castle e Davis, gestiscono i messaggi cifrati spediti e ricevuti dai paesi africani. Già questo ambiente, sottobosco dello spionaggio inglese in cui si svolgono attività di routine, prelude alle vicende umane che seguiranno. Poca azione e molti tormenti professionali e familiari. Nel bene e nel male. Di male non ce n'è molto, ma quel poco è di un grado talmente sconvolgente da pensare che l'assassinio per le alte sfere dei servizi segreti altro non rappresenti che un semplice e variabile tran-tran consumato in ufficio. Il bene è rappresentato dall'amore. Ammirevole la disperata ricerca di una fede da parte del protagonista dichiaratosi estraneo a Dio come a Marx (semplificazione fin troppo ingenua!). Significativa la sequenza di un prete chiuso nel confessionale che dovrebbe soltanto far parlare e ascoltare senza per questo assolvere o condannare. Il controverso cattolicesimo di Greene: parlare, solo parlare. Questo è un romanzo di solitudini.
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Greene è uno scrittore di stampo tradizionale, degno del titolo e del merito di romanziere, maestro del ritmo ma, almeno in questo romanzo che non è tra i suoi migliori, ci sembra non troppo attento alla complessità dei temi fissati. Tutto scorre quasi schematicamente, per modelli umani che rischiano gli stereotipi. Il mestiere è grande, lo scrittore si salva dalla banalità, ma non affonda le unghie dove sarebbe utile che venissero immerse. La morale stessa è prevedibile, quasi catechistica. Gli aneliti virtuosi, la lealtà, il coraggio, lo spirito ecumenico, la causa giusta vengono rappresentati a compartimenti stagni senza che la persona risalti nella sua intensa problematicità. Il fattore umano sembra incidere come elemento omologante i tradizionali canoni della drammaturgia narrativa. Lo stesso clima di sospetto che vaga per tutto il romanzo non sfugge al dubbio che non si tratti d'altro che di un collaudato espediente narrativo. La riconosciuta abilità di uno scrittore capace, ma in questo caso poco ispirato, cede alla comodità del professionista. Un po' di “dilettantismo” non avrebbe fatto male.
Si desidererebbe più pathos. Visto che la trama della spy story non è così intensa e avvincente come in altri romanzi, perché non scavare più sottilmente nel fattore umano e lasciare alla narrazione maggiore penetrazione? Efficace appare l'ambiente inglese in cui operano da un lato semplici funzionari nei loro piccoli uffici, e da un altro i capi-sezione che si incontrano in lussuosi ristoranti e riserve di caccia: tra un whisky e l'altro con assoluta nonchalance programmano il decesso dei propri sottoposti. Resa bene la rappresentazione della routine quotidiana e della consorteria di funzionari che non subiscono le ritorsioni della coscienza (umana) nell'ordire i più agghiaccianti delitti e meno bene l'appiattimento in cui sono costretti i personaggi. Paradossalmente il meno riuscito sembra essere proprio il protagonista, apparso come ingessato nelle sue motivazioni e azioni (umane). Il personaggio più riuscito a mio parere è il colonnello addetto alla sicurezza, dilaniato dalla solitudine e dal fallimento familiare e professionalmente combattuto tra omertà e verità. Le scatolette di sardine, che costituiscono il suo solitario e avvilente desinare, riflettono in Greene il tocco d'autore.
Castle, questo il nome del protagonista, non attira sufficientemente l'empatia del lettore, così come lo straniamento. Resta in bilico, ma ancora una volta non è sufficientemente sospeso: è fin troppo concretamente umano e appiedato. Uomo mite di sessantadue anni, è sposato con Sarah, una donna sudafricana più giovane fatta scappare per suo tramite dal suo paese d’origine. Si trova a essere padre di un figlio non suo, eppure la famiglia per lui è tutto. Sopporta perfino la presenza di un cane non propriamente benvoluto (qui Greene con flemma tutta britannica lascia scivolare guizzi di ironia). Castle partecipa troppo sommariamente ai “temi forti”: sta al lettore più che allo scrittore alludere alla drammaticità, e questo appunto forma la convenzione del romanzo che finisce col non sorprendere.Una maggiore teatralizzazione non avrebbe nociuto (l'appunto sembrerebbe inopportuno, visto che Il fattore umano, insieme a una trentina di altri romanzi di Greene, è stato ridotto per il cinema, nel 1979 con la regia di Otto Preminger). Forse l'esperto Greene ha avuto paura di esasperare e di sbagliare. È risultato, infatti, un libro diligente, ma pure senza coraggio. Viene da pensare al bisticcio di definire questo romanzo libro stampato, tanto è ossequioso alla convenzione letteraria.
Eppure, nella vita, Greene è stato una figura drammatica, afflitto da sindrome bipolare, con più tentativi di suicidio alle spalle, presenza di patologica irrequietezza, un viaggiatore per noia ma pure per nobili e rischiose istanze, quali quella di soggiornare in un lebbrosario. Evidentemente nel suo ultimo romanzo, a settantaquattro anni, ha voluto risparmiarsi e riposare (sui precedenti allori).
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Cesare de Seta in un recente articolo sul Venerdì di «Repubblica» parla di Anacapri, luoghi, personaggi, incontri. Tra le persone ivi conosciute c’è stato Graham Greene che nel 1948 aveva acquistato la villa chiamata Il Rosario. Lo scrittore inglese è descritto come «non troppo simpatico», laconico, bevitore, donnaiolo e interessato alla politica internazionale. Quest'ultimo tratto della persona, secondo De Seta, era legato ai tempi in cui Greene fungeva da “agente segreto” di Sua Maestà Britannica. Nel pezzo citato viene espressa la tesi che il taciturno e scontroso scrittore inglese avesse dimostrato interesse verso De Seta, quando questi aveva avuto modo di confidargli che l'illustre storico dell'arte Sir Anthony Blunt era un suo amico ed era stato più volte ospitato a casa sua ad Anacapri. L’episodio ha una trasversale rilevanza. Si sa che Blunt era stato il misterioso “quarto uomo” degli agenti segreti inglesi al servizio dell'Unione Sovietica: tra questi, Kim Philby, considerato il capo e il più intelligente e spregiudicato fra tutti. Il dato che qui ci interessa è legato alla prefazione di Il fattore umano scritta da Enrico Deaglio, il quale fa sua la supposizione che il testo del libro fosse stato dato in lettura da Greene proprio al collega e amico Kim Philby. Ipotesi, se non certezza, confermata nella postfazione scritta da Domenico Scarpa.
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