“L’ultimo parallelo dell’anima”, l’esordio di Pajtim Statovci
Statovci è una giovanissima voce emergente: L’ultimo parallelo dell’anima (Frassinelli, traduzione di Nicola Rainò) è il suo primo libro. Forti di questa consapevolezza, la delicatezza matura della sua scrittura colpisce forse con maggiore intensità, come pure la pienezza dei sentimenti e delle sfumature che vengono narrate.
Il racconto scandaglia un momento drammatico della storia recente, la guerra in Kosovo scoppiata nel 1996; ma non ce lo descrive con dettagli realistici e con la presenza in fieri dei personaggi sul campo. Quello che viene descritto è l’effetto che il conflitto crea, su chi pure ha deciso di scappare, ma che resta attaccato con la testa e con il cuore ai luoghi in cui è cresciuto. Ed è un effetto che dura una vita, e rimbomba a distanza di anni anche sulle generazioni più giovani.
Madre e figlio sono le voci narranti; in modo parallelo, parlano delle loro piccole vite che vanno avanti, e degli smottamenti delle loro anime in pena.Emine cresce in un villaggio poverissimo, ma tenta il riscatto sposando un uomo ricco. Quell’uomo non sarà mai all’altezza dei suoi sogni, e tuttavia costruisce con lui una famiglia. Bekim è uno dei loro figli; immigrato di seconda generazione, si abitua perfettamente al mondo ordinato e pulito – sterile – finlandese, si integra ma non ne è mai integrato: la diversità resta sempre un peso. Quella diversità che si eleva alla seconda perché è omosessuale.
Tra incontri sessuali consumati in fretta, acquisti compulsivi di enormi serpenti da lasciare liberi in casa, conversazioni inverosimili con gatti arroganti, e amori che cambiano la vita, Bekim vive la propria tormentata affettività; ma cercando la persona con cui condividere le proprie giornate in realtà è sé stesso che vuole trovare.
Crescendo, ha imparato a nascondere la propria vera identità. «Com’è che hai un naso aquilino, mi domandavano, perché hai neri i capelli e le sopracciglia, perché porti scarpe così sgangherate, non hai i mezzi per comprartene di nuove, la stessa giacchetta tutti i giorni, sei forse povero, sei un profugo, e mi davano spintoni, mi colpivano e poi ridevano, e qualcuno mi sputò sulla fronte, e quello sputo mi colò sulla faccia, e non ebbi il coraggio di pulirmi, se ti pulisci morirai, mi dicevano, pulisciti e poi muori, profugo bastardo». Suo padre gli dà il consiglio definitivo: «“Ti dico io cosa fare. Non rivelare mai a quelli là il tuo nome, e nemmeno da dove vieni”, poi mi passò lentamente una mano sul viso, e io sentii le sue dita sottili lungo la guancia, “non rivelare mai a quelli chi sono i tuoi genitori, i tuoi fratelli, non fermarti con nessuno per la strada e non parlare, e se vengono a chiederti qualcosa, sai cosa fare.” “Mentire”. “Esatto. Menti.”»
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La tensione di Bekim è tattile, si percepisce in ogni suo gesto e in ogni sua parola, ma soprattutto si trasferisce sugli animali con cui instaura un rapporto morboso. Il boa che tiene in casa, ad esempio, ma anche il gatto parlante con cui intrattiene conversazioni e sonnacchiosi risvegli. Queste creature incarnano tutte le diversità che il ragazzo si è portato addosso negli anni, ed è su di loro che Bekim prova a scaricare la propria frustrazione di sentirsi “altro”. «Non potrebbe essere che tutti da lui si aspettino il peggio perché si tratta di un serpente?», si chiede accarezzando la testa ruvida del suo boa. «Non c’è nessuno disposto a perdonarti le tue colpe», ripete in un altro momento.
L’autore, dal canto suo, è sapiente nell’organizzare il racconto di questa irrequietezza: la narrazione del presente è sempre inframmezzata, nei punti giusti, dai ricordi del passato che hanno costituito il movente, la causa silenziosa ma inderogabile delle sofferenze del ragazzo, «Cose che la mente dimentica, ma il corpo mai»: ed è nel corpo, infatti, che Bekim esprime il proprio disagio.
Statovci è altrettanto sottile nell’indagare il punto di vista dell’immigrato che si dovrebbe dire integrato, trasferitosi ormai da anni in un nuovo Paese, avendone appreso la lingua, avendone assunto abitudini ed essendone un cittadino, almeno nella pratica, di pieno diritto. Con osservazioni puntuali, attraverso la descrizione rapida di situazioni della vita quotidiana, con dialoghi davvero geniali, l’autore sottopone ai raggi X gli atteggiamenti bacchettoni dei finlandesi, quei piccoli tentativi di inclusione dell’immigrato che finiscono solo per sottolinearne l’estraneità. Il padre di Bekim non può non chiedersi con ingenuità: «Hanno più del necessario. Perché non dovrebbero volerci qui? Che cosa gli manca, che non abbiano già?».
LEGGI ANCHE – Il racconto della guerra in Kosovo, “Var” di Saša Stojanović
L’ultimo parallelo dell’anima scopre tanti interrogativi, sonda le pieghe più profonde di identità sofferte, sempre con delicatezza, sempre senza gridare. È un peccato che un romanzo così intimo, tanto complesso, sia presentato da una veste grafica, quella della copertina, del tutto fuorviante. Una scelta editoriale discutibile, che però non sottrae valore a questo esordio di scrittura così originale, raro.
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