L’ultimo atto del signor Beckett
Entrare nella mente di Samuel Beckett è il sogno di chiunque abbia assistito alla messa in scena di una sua opera. Un’immaginazione così divergente e inarrestabile da trasformare il silenzio più oscuro e denso dell’animo umano in un palcoscenico di voci interiori che danno corpo alle domande schivate per una vita. Aspettando Godot, Finale di partita, L’ultimo nastro di Krapp e (il mio testo teatrale favorito) Giorni felici (ricordo la messa in scena di Bob Wilson con una Adriana Asti in stato di grazia al Festival dei due mondi di Spoleto) ci costringono a osservarci, mentre sguazziamo nel quieto vivere, sotterrati fino al collo dalle nostre paure, aspettando un salvatore esterno che non esiste.
Per questo, quando la giornalista francese Maylis Besserie ha esordito con il romanzo L’ultimo atto del signor Beckett (pubblicato in Italia da Voland nella collana Amazzoni e tradotto da Daniele Petruccioli), in cui racconta gli ultimi giorni di Samuel Beckett nella casa di riposo Tiers-Temps a Parigi, città che ha amato e in cui ha vissuto in esilio dalla sua Irlanda per cinquant’anni, non ho potuto sottrarmi a questa lettura. Vincitore del Premio Goncourt 2020 opera prima, L’ultimo atto del signor Beckett, ci fa entrare nella testa del grande scrittore e drammaturgo irlandese, premio Nobel per la letteratura nel 1969, mentre la sua vivida immaginazione danza con la memoria, infischiandosene delle proteste di un corpo ormai allo stremo.
È così che Maylis Besserie, mescolando abilmente realtà e finzione, ci fa correre insieme a Beckett fra le strade della sua Irlanda, dietro i monti di Wicklow, mentre “scavalca la notte” nei suoi scarponi, riempendosi le tasche di sassolini. Ci fa sedere dietro di lui nella casa di Parigi o di Ussy ad ascoltare ciò che scrive. “Un’orecchia grande, insieme a una bocca, bellissima che mi ascoltava. Ascoltava le parole uscirmi dalla testa a mano a mano che le scrivevo, dopodiché mi dava il suo parere”. Ci fa navigare fra i suoi ricordi al volante della Due Cavalli grigia con la capote “bucherellata dagli astri e dalle intemperie, attraverso cui l’aria passava come un alito di libertà” che lo sospinge fino a casa.
Ci ricorda che le parole vanno scelte e usate con cura perché che si usurano, “si consumano. Come il culo dei pantaloni. Come il cuore”, per non doversi svegliare un giorno in un letto bianco, circondato da altri letti pallidi in una casa di gesso a fissare un foglio vuoto.
E le visite mediche, l’alimentazione forzata, la fisioterapia con cui un nugolo di camici azzurri cerca di prolungare la vita di un uomo “finito nella vita per errore e rimasto al mondo per negligenza” è osservata da Beckett con stupore per chi tenta l’impossibile per salvare una vecchia carcassa, quando è la brodaglia di pensieri che vi ribolle dentro a preoccuparlo. Terrore dagli occhi di felce che ronza instancabile nelle orecchie.
Maylis Besserie ci offre un balcone privilegiato da cui osservare l’elettricità che percorre senza sosta una delle menti più brillanti e innovative del XX secolo, senza risparmiarci gli errori, le ipocrisie, le debolezze e i rimpianti dell’uomo che di quella mente è il proprietario. Ed è qui la forza di questo testo, che diventa una raccolta di esercizi per l’immaginazione alla portata di chiunque sia disposto a sbaragliare sé stesso.
Con la giusta dose di empatia, ammirazione e tenerezza, Maylis Besserie, trasforma un reportage in un atto di amore per l’uomo Beckett, ancor prima che per il drammaturgo, ricordandoci che è dall’errore che nasce l’illuminazione.
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