“L’ultima settimana di settembre”, nonno e nipote on the road nel romanzo di Lorenzo Licalzi
Con L’ultima settimana di settembre (Rizzoli, 2015), Lorenzo Licalzi torna a trattare il tema dell’invecchiamento usando la penna lieve e sciolta che lo contraddistingue. In passato, lo psicologo-scrittore genovese si è già misurato con personaggi che attraversano questa fase dolceamara della vita: lo ha fatto in Che cosa ti aspetti da me? (2006) e, in termini di bilanci e seconde giovinezze, il discorso compare anche nel suo penultimo romanzo, Un lungo fortissimo abbraccio (2011). Non sarà un caso che, prima di dedicarsi alla scrittura, Licalzi abbia fondato e diretto una casa di riposo.
Giunto a ottant’anni e ormai vedovo, Pietro Rinaldi, protagonista e voce narrante di quest’ultimo romanzo di Licalzi, ha deciso che l’ultima settimana di settembre sarà anche la sua ultima settimana di vita. Il romanzo si apre con la sua pseudo-comica lettera d’addio al mondo: «chiedo di essere cremato e che le mie ceneri vengano buttate nel cesso». Vent’anni prima, con la pubblicazione dell’opera Andate tutti affanculo, aveva invece sancito il suo chiacchierato commiato dalla scena letteraria.
Rinaldi è il classico scrittore sospeso fra apatia e isteria, quello che ha fatto della solitudine la sua religione e del cinismo il suo filtro con il mondo esterno. Preferisce i libri alle persone, ma inveisce contro chi dichiara che un libro gli ha cambiato la vita. Disprezza i perbenisti, ma anche quelli a cui non va mai bene niente. Odia i camperisti, i padroni che non chiamano Fido il proprio cane, i libri della Mazzantini e i film di Muccino. Si schiera contro chi compra scrittori dalla gloria postuma e disdegna chi legge solo gialli. Tiene una lista, che aggiorna ciclicamente, di tutti i personaggi che non sopporta; in cima mette i suoi stessi lettori.
Nonostante la sua determinazione a farla finita, nell’ultima settimana di settembre Rinaldi si dovrà invece scontrare con i cocci della sua vita personale: sua figlia e suo nipote, per i quali è un padre assente e un nonno estraneo. La precipitazione degli eventi lo costringerà a rimandare il suicidio e a prendersi cura del suo unico nipote. Con qualche Tavor in corpo, si troverà coinvolto in un viaggio on the road da Genova a Roma in compagnia del nipote Diego e dell’elemento comico dominante, il maestoso cane Sid.
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Durante le tappe del viaggio Licalzi non perde occasione per descrivere paesaggi e bellezze di Genova e dintorni: da Spianata Castelletto, dal cui ascensore il poeta Giorgio Caproni avrebbe voluto un giorno salire in Paradiso, a Boccadasse, uno dei «miracoli di Genova». Nelle intenzioni alquanto prevedibili dell’autore, il viaggio segnerà anche il recupero del rapporto nonno-nipote e la conversione di Pietro Rinaldi da burbero asociale a nonno affettuosamente antipatico. È proprio la prevedibilità della presa di coscienza di Rinaldi a penalizzare l’ultimo romanzo di Licalzi. L’ultima settimana di settembre vuole essere un on the road formativo, ma la sua benzina fatta di cliché finisce per ingolfare il motore già a metà libro. Licalzi impone un personaggio anticonformista, dalle reazioni imprevedibili e con la battuta pronta, ma ne fa una caricatura boriosa che annega negli stessi cliché che tenta di deridere.
Rinaldi risulta certamente antipatico, ma di un’antipatia troppo scontata. Tutti quelli che mi stanno sul cazzo, il suo capitolo-testamento più volte citato, è la classica lista, apparentemente geniale, di difetti del prossimo con cui Licalzi cerca di ammiccare al lettore. Per non parlare dell’elaborazione del lutto di cui l’autore offre un’immagine con cui è veramente difficile identificarsi, sia dal punto di vista del nipote adolescente, sia da quello più “maturo” del nonno.
In questa prova l’autore genovese sembra a corto di idee originali. Ripete battute e replica anche pensieri espressi in sue opere precedenti. L’«abbraccio che non mente» de L’ultima settimana di settembre ricorda molto l’«abbraccio perfetto» e «l’abbraccio che non perdona» di Non so (Fazi, 2003). L’epilogo in cui Diego narra la sorte del nonno lascia un sapore molto naïve, ma privo della freschezza del romanzo d’esordio di Licalzi, Io no (Fazi, 2001), da cui Ricky Tognazzi e Simona Izzo hanno tratto l’omonimo film.
Nonostante la parabola prevedibile e quel sottointeso “non è mai troppo tardi” urlato dalle pagine ˗ o forse proprio per questo motivo ˗ la lettura de L’ultima settimana di settembre regala un po’ di tenerezza. Forse è proprio il dolore a essere banale e magari, alcune volte, sulla necessità di sospendere il giudizio ha ragione Pietro Rinaldi: «Una pena individuale, intima, certe volte, che magari per noi avrebbe lo stesso valore di un sonaglino perso a vent’anni. Ma quel che conta è come uno la vive, questa pena, non come la vivremmo noi al suo posto». In fondo, un’ultima settimana di settembre vissuta come i personaggi di Lorenzo Licalzi sarebbe un’occasione di crescita da non perdere.
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