L’ossessione della perdita. “L’isola dell’abbandono” di Chiara Gamberale
La perdita di una persona amata è un rischio a cui la Vita espone tutti noi, senza indicarci se e quando ne saremo vittime: potrebbe accadere, o potremmo essere risparmiati dalla sofferenza che essa comporta, oppure potrebbe colpirci ma in maniera più lieve, come nel caso della fine di una relazione. Nelle ipotesi peggiori invece potrebbe sbriciolare tutto il nostro universo, interiore e non, attraverso quella mancanza a cui non c’è rimedio: la morte dell’altro. Tutto ciò è una “consapevolezza non consapevolezza” di cui gli individui, senza esclusione, sono dotati, ma ne esistono alcuni per cui questo pensiero è una vera e propria ossessione che li intrappola in un labirinto di paure, debolezze e traumi. E quando si presenta loro la possibilità di seguire la strada che conduce all’uscita, fuggono e si perdono di nuovo. Riarrotolano il filo del loro vissuto, ci si attorcigliano e ci si aggrappano perché è il loro porto sicuro, l’unico sentiero a loro familiare, lo scudo che li protegge dalla caducità dei rapporti, delle emozioni, delle persone. E anche dell’amore di cui però, allo stesso tempo, fanno richiesta ogni volta che, paradossalmente, invece di restare, decidono di salire sul treno della Sindrome dell’abbandono.
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A fornirne una perfetta rappresentazione è Chiara Gamberale nell’ultimo romanzo, L’isola dell’abbandono (Feltrinelli, 2019), la cui protagonista, un’illustratrice e scrittrice di favole per bambini, fatica ad accettare la realtà e trova rifugio, da una parte, nella creazione di figure fantasiose, dall’altra nel turbinio di immagini costruite sulle ipotesi che qualcosa di grave e irreparabile possa capitare ai genitori, al compagno, al figlio.
Partendo dal mito di Teseo che, dopo essere stato aiutato a uscire dal labirinto, abbandonò Arianna sull’isola di Naxos, l’autrice ci trascina con delicatezza tra i meandri delle fragilità umane, affrontando tematiche complesse quali la genitorialità e i cambiamenti che ne derivano, soprattutto per le donne, la morte, le relazioni autodistruttive, l’Amore in tutte le sue sfaccettature e i disturbi psichici.
La narrazione ha inizio da una riunione organizzata da un’Associazione di genitori single a cui il personaggio principale, Arianna, diventata madre da sei mesi, partecipa su invito di Damiano, lo psichiatra presso cui è stata in cura nonché ex compagno e padre del loro bambino, Emanuele. Eppure quell’incontro, grazie alle parole di una delle donne presenti, le fornisce l’occasione per intraprendere un percorso intimo che si snoda a partire dallo scombussolamento interiore prodotto dalla gravidanza e dalla maternità e va a ritroso nel tempo, ripercorrendo la storia con colui che considerava il grande amore: Stefano. Preda di continui sbalzi d’umore, fonte di ispirazione di uno dei principali fumetti di Arianna, Stefano è un uomo che la umilia con continui tradimenti e ritorni a cui lei sembra incapace di sottrarsi, fino a quando, proprio durante una vacanza sull’isola greca di Naxos, la abbandona senza neanche una spiegazione, costringendola a fare i conti con l’ombra della mancanza.
In quei mesi in cui viene meno l’àncora a cui si era sempre aggrappata, quella costituita dalla certezza che l’assenza del compagno sarebbe stata temporanea e seguita ancora una volta dalla “presenza”, Arianna perde la bussola della sua esistenza, orientata fino ad allora verso la necessità di salvare quel partner narcisista e bisognoso cronico di rassicurazioni. Ma nel momento in cui il dolore irrompe inaspettato e la protagonista è costretta a guardare in faccia il vuoto generato dalla separazione, un altro sentimento altrettanto totalizzante la travolge: l’Amore. Su quell’isola che nella mitologia ha fatto da sfondo a un abbandono leggendario, l’incontro con un giovane uomo – a cui la scrittrice romana dà un nome altrettanto mitologico, Dionisio – le permette di fare una scoperta inattesa: si può stare insieme senza farsi del male, senza annullarsi, senza rinunciare alla propria identità a favore di quella di chi si ama o si crede di amare. Grazie alle ferite della rottura, Arianna si rende quindi conto dell’esistenza di un sentimento in grado di condurla alla felicità, di darle luce e non di trascinarla nel buio, di darle certezze invece di alimentarne le insicurezze. Un rapporto che non ha bisogno di distruggere per affermare la propria esistenza, ma che necessita, al contrario, di costruire, di avere un progetto, un “noi” da pronunciare ad alta voce e a cui dare forma.
«L’amore […] mentre ci prende, ci tira via da quello che eravamo fino a un attimo prima e inganna tutti i nostri buchi…Non solo ci fa credere che non verremo mai più abbandonati, ci fa anche dimenticare di esserlo stati […]»
Eppure, di fronte alla possibilità di lasciarsi andare a quel legame che si alimenta di affetto e non di dolore, Arianna appare ancora una volta smarrita perchépercepisce la prospettiva di essere abbandonata come una possibilità più facilmente realizzabile rispetto a quella di concedere fiducia e abbandonarsi a qualcuno, al mondo, alla Vita.
«Poi l’amore passa, diventa altro, e i buchi sono ancora tutti lì.
Gli abbandoni anche.
Quelli ricevuti.
Ma forse soprattutto quelli inflitti.»
Infatti l’intera esistenza di questa donna è costruita sull’ossessione della perdita, sul timore che una telefonata arrivi e le annunci la morte di una persona amata, privandola così, e ingiustamente, di un pezzo fondamentale di se stessa. Un’idea fissa che ha costituito la porta d’ingresso dellabirinto di Arianna in cui a guidarla è un filo che non la conduce mai all’uscita, ma la riporta sempre allo stesso punto: alla paura di essere abbandonata, un timore che però nasconde il desiderio impellente di essere amata a tutti i costi, anche al prezzo di assumersi la responsabilità della tristezza e della felicità degli altri, della loro salvezza e distruzione, perfino della vita e della morte altrui.
Ma se l’amore nato proprio sull’isola di Naxos non la tira fuori dalla prigione emotiva, la nascita del figlio Emanuele la costringe a confrontarsi con se stessa, con le proprie contraddizioni, con la sua identità, con la necessità di fare pace con il mondo che la circonda e che, da tempo, le chiede di lasciarsi cullare da tutto ciò che di bello è in grado di offrirle, anche se comporta il rischio di cadere e ferirsi.
L’arrivo di questa nuova vita si mescola quindi agli strascichi psicologici di un lutto, alla rievocazione di un amore incompiuto e ai dubbi sulla costruzione di una relazione presente, lasciata sospesa in una sorta di limbo in cui la tentazione di fuggire si mescola al desiderio di cambiare rotta, di darsi una possibilità e di lasciarsi andare al cambiamento, con tutte le conseguenze che ne derivano. In balia di un fiume di emozioni contrastanti, di ricordi e nuove preoccupazioni, Arianna decide di far ritorno proprio su quell’isola in cui ha subito e inflitto “l’abbandono”, nel tentativo di riprendere quel filo che le aveva indicato, dieci anni prima, la strada per uscire fuori dal proprio labirinto.
Ci possono essere libri che hanno bisogno di coraggio, non solo per essere scritti, ma anche per essere letti? Dopo aver terminato questo romanzo la mia risposta è affermativa. Ogni singola pagina delle duecentoventiquattro che lo compongono scava in profondità di chi ci si addentra, glisfila pezzi del suo “io”, a volte li aggiusta, in altri casi li sposta e li rimette al loro posto. È necessario essere pronti a inabissarsi dentro se stessi per poter posare gli occhi sulla narrazione di questa storia in cui il punto di vista cambia costantemente, senza che ce ne accorgiamo, passando dalla terza alla prima persona. Un espediente che permette al lettore di immergersi nelle vicende descritte, di “viverle epidermicamente”, ma allo stesso tempo di osservarle dall’esterno. Ciò fa sì che le sensazioni fisiche – in molti passaggi si avverte un nodo in gola, in altri una morsa alla bocca dello stomaco – e le emozioni si alternino con la razionalità, con una visione oggettiva dei comportamenti dei personaggi.
Ad accrescere il coinvolgimento ci sono i dialoghi, costruiti in modo tale da riprodurre quelli che avvengono nella quotidianità, con pause, silenzi, frasi spezzate e punteggiatura non canonica, ciò che rende tutto l’impianto narrativo talmente reale da avere la sensazione di essere stati risucchiati da quei fogli di carta: non esiste una sola pagina in cui l’attenzione si perda, in cui il ritmo si abbassi o in cui non ci siano passaggi suscettibili di punzecchiare l’anima del lettore, di grattugiare anche chi ha la scorza più dura. E per fare tutto ciò l’autrice non si serve di una scrittura complessa e solenne, al contrario, ricorre a frasi semplici, ma allo stesso tempo in grado di “catturare” i sentimenti, le fratture, i desideri e le debolezze di cui ogni essere umano è portatore.
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Chiara Gamberale conferma, con quest’ultimo lavoro, di saper dipingere le emozioni attraverso le parole. Pertanto le uniche “difficoltà” riscontrabili riguardano esclusivamente la nostra sfera intima: la lettura di questo testo narrativo è, fin dalle prime pagine, una scelta fatta con la consapevolezza che il racconto non risparmierà riflessioni, nodi attorno al cuore e anche qualche lacrima. L’isola dell’abbandono possiede un’intensità contrastante che attira a sé e, per lo stesso motivo, “allontana”, che affascina ma allo stesso tempo spaventa perché in Arianna ognuno di noi può riconoscere un pezzo di se stesso, che si tratti dell’ossessione della perdita, della paura costante di non essere amati o di quel labirinto di pensieri e alibi che ci costruiamo, per sfuggire alla sofferenza e giustificare le nostre scelte, che spesso si sono nutrite di abbandoni. Subiti o inflitti.
«Poi una mano le accarezza una guancia, e tutto quello che fa male.»
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