‘L’orizzonte degli eventi’ di Cristò, o ‘Della prosa consapevole’
Recenti riflessioni mi conducono tutte a un fulcro, quello della consapevolezza. Rendersi conto di quello che accade, comprendere le motivazioni delle azioni, i significati sottesi a un discorso è ciò che rende presente e vivo un essere umano. In opposizione al trascinarsi come manichini ossibuchivori a lavoro, a cena fuori, al cinema per lo spettacolo imposto dalla Comunicazione (nell’accezione più negativa).
Se nella vita l’assenza di consapevolezza è la norma, nella maggior parte della narrativa contemporanea italiana è un diktat. Se vi capita di leggere libri a diffusione locale, che hanno circolazione limitat(issim)a, se vi capita, soprattutto, per lavoro o collaborazioni varie di leggere testi in cui gli editori per primi non credono (e perché li hanno pubblicati?, vi chiederete. Non per bontà o per la convinzione che tutti abbiano il diritto di dire la propria, ma perché si tratta di uno scambio di carta stampata fra autore ed editore), se dunque vi capita questo, non potete non esservi posti il problema della consapevolezza.
Quante persone coltivano il sogno romantico di scrivere un libro purchessia? Quanti poeti per caso avete incontrato? Oh, i poeti sono i peggiori. Dico i ‘poeti’ che trovano nella scarsa inchiostrazione della pagina di una silloge la motivazione giusta per pubblicare un libro senza perderci troppo tempo, perché c’è meno da scrivere, a scriver poesie. Dico i ‘poeti’ che non sanno neanche cosa sia il lavoro di cesello, quelli persuasi che il Genio si incarni in loro senza che sia necessaria l’intermediazione del cervello.
I narratori hanno quantomeno l’obbligo di battere più tasti del computer (la correzione automatica in Word e gli editor – ove previsti – faranno il resto), e scusate se è poco.
Ecco perché L’orizzonte degli eventi (il Grillo Editore, 13 euro) merita quantomeno attenzione. E rispetto. Ecco perché se un testo è concepito con una struttura (e con una struttura circolare – io dico: moebiusiana) si deve quantomeno tributare all’autore il riconoscimento di essere architetto, vero deus ex machina del proprio mondo narrativo. Un universo autosufficiente, perfettamente in sé conchiuso e funzionante. Basterebbe notare i rimandi interni, le riprese lessicali e tematiche a parti invertite (ecco perché ripeto: moebiusiane), per esser certi della consapevolezza narrativa di Cristò. E del profondo senso di responsabilità dell’autore verso i suoi personaggi, che considera esseri viventi a cui dare un senso, uno sviluppo. La narrativa riprende il suo ruolo Comunicativo (qui nell’accezione migliore), si fa veicolo di significati e non mero esercizio di polpastrelli battenti sulla testiera. I veri narratori sono problematici, dubbiosi. Si interrogano sul senso delle azioni e, soprattutto, su quello della scrittura.
Il romanzo di Cristò (trama lineare, rispetto delle unità aristoteliche, brevità e sviluppo novellistici ma grande, profonda pregnanza) è una narrazione che prescinde dal contesto in cui è nata e che si pone sul terreno di confronto della prosa internazionale. I riferimenti a John Barth e a David Foster Wallace (i cui nomi risuonano in quelli dei protagonisti del libro) non sono vezzo citazionistico, ma tributo a maestri e ispiratori – perché «un buon libro è quello che ti fa venir voglia di scrivere a tua volta», osserva Cristò. L’espediente metanarrativo, imprescindibile per l’inserimento nella letteratura postmoderna (anche qui: nell’accezione migliore), è presto detto: l’ottantatreenne Giovanni Bartolomeo, famoso scrittore, rilegge il suo libro più importante senza ricordarne nulla (l’Alzheimer gli ha fatto superare quel confine oltre il quale non passa più l’informazione, così simile al bordo del buco nero – in astrofisica ‘orizzonte degli eventi’, appunto). Al lettore la doppia lettura della giornata del protagonista immemore e della formazione di uno scrittore, Donatello, protagonista a sua volta della narrazione di secondo livello. Soprattutto, al lettore il piacere di affidarsi a una scrittura consapevole, senza rischiare la delusione dell’implosione della storia nel nonsense o nel finale sciatto. Rara, rara prassi, la scrittura per reale necessità di comunicare qualcosa, e il farlo con l’autoironia sufficiente per porre, sull’aletta, una citazione del testo quale: «Questo libro è una porcheria».
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