L’italiano tra fiamma e cristallo: quattro variazioni, quante lingue?
Esiste soltanto una lingua italiana? I tratti del nostro idioma sono quelli tipici della perfezione di un cristallo luminoso o del movimento di una fiamma ardente?
Dall’unità d’Italia in poi si è assistito all’affermarsi e al consolidarsi di un fenomeno che ha raggiunto il suo massimo apice negli anni della società di massa: la nascita e lo sviluppo dell’italiano “popolare”, definizione contestata perché intrisa di una connotazione inconsapevolmente spregiativa, anche se, nonostante questo, conserva un buon livello di efficacia. Nasceva uno Stato, con tutti i conseguenti problemi di ordine economico e politico, e nasceva, al contempo, l’esigenza di abbandonare il dialetto e sforzarsi di apprendere una lingua sino ad allora mai sperimentata: quell’italiano codificato da Pietro Bembo nel 1525, con un’attenzione completamente rivolta alla dimensione scritta; rivisto e proposto, non senza polemiche, da Alessandro Manzoni ne I Promessi Sposi.
La storia della lingua italiana è caratterizzata da una continua tensione fra due poli, quello dello scritto conservativo e quello del parlato aperto ai cambiamenti: una tensione tra la fissità del cristallo e il movimento della fiamma, che è andata sempre più acuendosi nel corso dei secoli. Nel Cinquecento, l’italiano era stato appena codificato da Bembo nelle sue Prose della volgar lingua; nell’Ottocento, Manzoni impose persino un modello – quello fiorentino –, non senza polemizzare con Ascoli, che gli contestava l’ingenuità di non aver considerato l’assenza di un grande centro propulsore nella Penisola (come Parigi in Francia): per il linguista, il nuovo idioma avrebbe dovuto essere il frutto di spinte provenienti dal basso e non di un diktat delle alte gerarchie. Oggi, la situazione è radicalmente cambiata: nessuno accetterebbe di buon grado che un’Accademia o un’élite ristretta regolamentassero gli usi linguistici e la consapevolezza delle dinamiche interne alla lingua è sicuramente maggiore, così come quella del continuo do ut des tra scritto e parlato: insomma, i veri protagonisti dell’evoluzione linguistica sono tutti i parlanti, non soltanto i teorici e gli studiosi (d’altra parte, i linguisti, più che imporre, si limitano a descrivere e consigliare ciò che è maggiormente accettato e accettabile).
Se lo scritto e il parlato hanno tendenzialmente i tratti del cristallo e della fiamma – esistono pur sempre delle regole interne al sistema che ne regolano l’evoluzione e ne salvaguardano l’equilibrio –, non si può certo dire che l’italiano nel suo complesso sia più vicino all’uno e più lontano dall’altra: è vero che nasce come lingua letteraria e scritta – gli stessi scrittori erano soliti parlare dialetto –, ma è altrettanto vero che è cresciuto, e continua a svilupparsi, seguendo più dimensioni (come qualsiasi altro idioma, del resto); all’interno di queste dimensioni, poi, le strade che ne delineano l’architettura sono moltissime.
Che non si possa parlare di due o più lingue italiane è ovvio, ma la tentazione è forte: se si ascoltano con attenzione i discorsi dei parlanti più giovani, aperti più degli anziani al cambiamento, e li si mette a confronto con le rispettive produzioni scritte, la differenza emergerebbe immediatamente (qui si fa riferimento alle interazioni in un gruppo di pari, quindi a un parlato molto più colloquiale e poco controllato, e non a un esame universitario orale, in cui la situazione impone un certo modo di esprimersi e comportarsi). È assodato, insomma, che, a seconda del mezzo comunicativo – voce, radio, tv, blog e mass media in generale –, l’uso della lingua cambia notevolmente: nel parlato, per esempio, si tende a sostituire il congiuntivo con l’indicativo in diverse circostanze; situazione completamente diversa dallo scritto, visto che la norma grammaticale impone l’utilizzo corretto di tutti i modi verbali; ma questa variazione, che si definisce“diamesica”, non è l’unica a caratterizzare l’italiano.
In alcuni casi, infatti, il “cristallo” è così perfetto da rompersi e la lingua viene meno alla sua funzione principale di consentire un’agevole comunicazione. È il caso, per esempio, di “è severamente vietato il conferimento di rifiuti” in luogo di “è severamente vietato gettare i rifiuti”: col “burocratese” – che la frase citata rappresenta a pieno – tutti hanno a che fare e lo stesso Calvino, in un articolo del 1965, scriveva che questa è “antilingua” e non italiano: parole dure, che, però, rendono chiaramente l’idea e trovano continuità nella lotta serrata dei linguisti di oggi a “chi scrive per non farsi capire”; sono stati messi a punto persino dei corsi per insegnare ai tecnici della burocrazia a scrivere per tutti, senza inutili complicazioni.
L’italiano cui abbiamo fatto riferimento è quello che il sociolinguista Gaetano Berruto definisce “burocratico” e appartiene a un asse di variazione molto più complesso rispetto a quello diamesico, in quanto comprende tutti i tipi di registro possibile e non fa riferimento soltanto a due dimensioni (quella dello scritto e del parlato): in un gruppo di pari, e in un contesto non sorvegliato, un parlante colto non si esprimerà come invece farebbe in una conferenza; nella stesura di un saggio di tipo scientifico saprà utilizzare la terminologia e lo stile corretti; è stato studiato, inoltre, che le donne utilizzano molto meno rispetto agli uomini il lessico relativo alla sfera sessuale: il loro comportamento linguistico, insomma, è sicuramente caratterizzato da maggiore pudore. È evidente, quindi, che un’infinità di situazioni diverse pretende un registro appropriato: siamo nell’ambito della cosiddetta “variazione diafasica”, all’interno della quale sempre Berruto individua ben cinque “stili” – volendo adottare la terminologia degli studiosi americani –: l’“italiano informale trascurato”, l’“italiano gergale”, l’“italiano formale aulico”, l’“italiano tecnico-scientifico” e il già citato “burocratico”.
Il quadro risulta ancor più complesso, se si considera che gli assi di variazione non sono indipendenti, ma si incrociano tra loro: anche se è scritto, per esempio, un messaggio a un amico sarà sicuramente molto più informale di un discorso con un estraneo, dopo l’esposizione di un saggio in un incontro fra intellettuali.
Queste variazioni vanno affiancate a quella “diastratica”: la lingua del parlante non cambia solo in base al contesto comunicativo e al mezzo di trasmissione, ma anche – e soprattutto, potremmo dire – in base all’istruzione (legata, in linea di massima, al gruppo sociale di appartenenza, al reddito del nucleo familiare e non solo): un parlante più istruito saprà sicuramente interagire con parlanti altrettanto istruiti; un semicolto, invece, riuscirà a farlo difficilmente e non bene, non potendo dominare tutta la lingua, ma solo una parte di essa. Lungo l’asse diastratico, Berruto individua proprio l’“italiano regionale popolare”, aggiungendo all’etichetta “popolare” l’attributo “regionale”.
Alle variazioni diafasica, diastratica e diamesica soggiace, infatti, quella “diatopica”, che si sostanzia nella differenziazione della lingua in base alla provenienza del parlante, identificata prima di tutto con l’accento e l’intonazione e, in secondo luogo, con il lessico ed elementi di varia natura. Non esiste, perciò, un solo italiano popolare, poiché, essendo questo un concetto strettamente legato a parlanti che hanno come lingua madre il dialetto, ed essendo il dialetto una realtà schiettamente connessa alla variabile spaziale, è chiaro che lo sforzo di apprendimento, e lo stesso risultato, sarà marcato in senso diatopico. Il discorso può essere esteso; infatti, la variabile spaziale è così importante da compromettere la stessa nozione di “italiano standard”, quello codificato nelle e dalle grammatiche: a meno che non abbia seguito appositi corsi di ortoepia, anche un parlante molto istruito sarà riconosciuto in base al suo accento e viene, così, a mancare, in gran parte dei casi, il presupposto secondo il quale l’italiano standard è quello non marcato in alcun senso (e cioè indipendente da tutti gli assi di variazione).
L’architettura dell’italiano contemporaneo di Berruto comprende ben nove varietà, dal burocratese all’italiano tendenziale degli ultimi decenni - il cosiddetto “italiano neostandard” -: ognuna ha le sue caratteristiche e presenta i suoi problemi; qualcuna è più vicina al cristallo; qualche altra, invece, alla fiamma. Parlare di una sola lingua è sicuramente riduttivo, anche se qualcosa ci impedisce di ipotizzare l’esistenza di due idiomi e la scomparsa graduale di uno o dell’altro: è la magia dell’“equilibrio” che mantiene unito il sistema intero, infiammando il cristallo e indebolendo la fiamma.
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