L’Italia di Franceschelli è un’Italia vera
L’Italia vera è racchiusa tutta nel romanzo di Fabio Massimo Franceschelli, uscito per Del Vecchio editore, finalista al Premio Calvino 2015 per esordienti e intitolato proprio Italia.
Va detto da subito, però, che non pare di leggere un romanzo d’esordio, ma il lavoro molto ben costruito e curato di un autore che sa miscelare temi, ritmi, personaggi e stili diversi pur tenendo sempre sul fondo la luce accesa della trama, della cornice “realisticamente italiana” entro la quale si svolge la complicata vicenda narrata.
L’autore ha esperienza da vendere nella narrazione drammaturgica e questo fa sì che il lavoro sul testo renda Italia una storia dove si incrociano i temi più ostici dell’italianità contemporanea: il lavoro, nelle diverse stratificazioni sociali e morali, le indifferenze, la territorialità vetusta, lo spegnimento ideologico, la frustrazione dei ruoli, la concentrazione di follie irriconoscibili ma reali.
Questo è un romanzo che ruota intorno alla perdita di senso dei ruoli che si sono costruiti durante il secondo Novecento italiano, quelli un tempo popolarissimi (la promoter, il sindacalista, il manager, ecc.), ora caduti inesorabilmente in disgrazia per via di una crisi che non è solo economica, ma di carattere morale e di tenuta complessiva del sistema Paese.
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Il romanzo si propone come un pezzo di un racconto nazionale più ampio, dentro il quale trovano spazio altre scritture italiane come quelle dei Wu Ming, per esempio. Scritture in cui siamo portati a specchiarci e a prendere una posizione davanti alla superficie deformante della narrazione quotidiana.
La parola più adatta al testo è ossessione, perché ricorre evocata nelle vite dei tanti protagonisti di questo coro italiano. Ossessionanti sono le figure, i personaggi, presentati dall’autore prima di entrare nel vivo del racconto, come fossero una didascalia necessaria tra i titoli di testa di un film e l’ingresso nel flusso delle immagini.
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Il racconto si dipana grazie all’invio di diciassette lettere di ingresso nella Cassa Integrazione – una specie di incubo italiano vivente – che dà la stura all’incrocio tra i destini dei differenti personaggi in un intreccio dove la scelta dei linguaggi allude a una più alta ricerca di senso, quasi sacro, dentro un’atmosfera metropolitana capeggiata dall’onnivora Cattedrale – un grande ipermercato che simboleggia la pervasività dei non luoghi nella nostra epoca.
L’incombenza della fine, della catastrofe nazionale, è onnipresente, ma è deliberatamente esorcizzata dal personaggio di Italia, un’anziana che parla il suo slang dialettale, un misto di suggestivi dizionari meridionalizzanti. Sarà Italia a salvarsi, anche simbolicamente, dall’ineluttabile sorte del coro dei personaggi chiusi nella Cattedrale e nella vertigine discendente dell’abisso, della disfatta totale.
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Il romanzo è certamente un’esplicita allegoria del presente, dove la catena degli eventi si tiene nella solitudine interiore dei personaggi, nella direzione tutta individuale che ciascuno di essi porta avanti nonostante la disfatta imminente.
Questo il tratto che più fa assomigliare l’Italia di Franceschelli all’Italia vera, dura e morente dei giorni nostri, e che fa di questo esordio un’opera spudoratamente matura.
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