“L’isola dei senza memoria” di Yoko Ogawa, il postmodernismo giapponese
L’isola dei senza memoria di Yoko Ogawa non è solamente un romanzo distopico sulla perdita, un abbacinante furto della libertà visto dall’interno. È soprattutto un’allegoria della condizione umana in chiave post-modernista.
In un tempo imprecisato, su un’isola senza nome l’intera popolazione progressivamente smette di ricordare. L’isola è il Giappone o l’essere umano? Come per un’inspiegabile epidemia della memoria, sparisce l’idea di qualcosa insieme alla cosa stessa. È omertà o totalitarismo? È magia o inganno? Come nel miglior post-modernismo non ci è dato di sapere ogni dettaglio, scompaiono i profumi, gli uccelli e gli oggetti del quotidiano. Scompaiono i parenti, gli amici ma ci si dimentica dei loro volti, della loro esistenza. Le metafore sono chiare: scompare prima la bellezza, poi la libertà e la vita stessa. Il lettore, come i protagonisti, non ha la possibilità di capire perché tutto ciò stia avvenendo, piuttosto la Ogawa pone l’accento su cosa significhi vivere la perdita, ricordare in una società che dimentica o dimenticare le uniche cose che avrebbero dato un senso a tutto quanto. È una fiaba grottesca e profonda, un monito più importante di quanto possa apparire, proprio come le fiabe antiche, prima che il cinema le edulcorasse.
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Ci sono due possibili reazioni a L’isola dei senza memoria, pubblicato da Il Saggiatore e tradotto da Laura Testaverde: la reazione a caldo, la meno “giapponese” forse, e la reazione a freddo. La prima è dovuta al fatto che il romanzo si pone sulla scia di una corrente giapponese di narrativa che si rifa alla distopia di George Orwell, sia per genere sia nello stile minimalista. Il Giappone è noto per la tradizione zen ma non è un semplice retaggio culturale; lo stile della Ogawa è frutto di un percorso alla scoperta di Fitzgerald, Capote e Carver. Lei stessa ammette, in un’intervista rilasciata alla critica letteraria Asayo Takii, di aver letto i romanzi americani tradotti da Murakami Haruki (prima il cognome alla giapponese) perché se li aveva scelti lui dovevano essere sinonimo di qualità. In questo senso Yoko Ogawa è la seconda generazione letteraria della narrativa giapponese, formata sui testi e sulle ispirazioni di Murakami e Ishiguro a partire dagli anni ‘80 e ‘90. Entrambi autori apprezzati in Occidente, dove vivono e lavorano, li possiamo considerare figli di due culture.
C’è una ragione dietro al successo editoriale della narrativa giapponese: Yoko Ogawa e colleghi stanno dando nuova linfa al romanzo contemporaneo, guardando all’illustre passato letterario americano con occhi diversi. Ecco che la Terra si fa tonda e cominciano a scomparire le categorie di Occidente e Oriente, la globalizzazione si fa portatrice di nuovi significati e sensibilità, ma il rischio è quello squisitamente postmoderno dell’incomprensione e dell’incomunicabilità tra le parti. Il lettore italo-europeo rischia, a caldo, di lasciarsi sfuggire la grande onda giapponese per mancanza di abitudine alla pacatezza. Concretamente, il minimalismo non è nelle nostre corde, o meglio la calma; quello che per un giapponese è l’attenzione ai dettagli e la gentilezza, per noi è eccessivo rigore e pesanti formalità. In narrativa il divario non cambia, nati e cresciuti con Flaubert e Proust, ci dimentichiamo del Verga e scambiamo il minimalismo per brutalismo, le vicende quotidiane per mancanza di fantasia e quelle surreali per un suo eccesso. Come se fosse possibile essere “troppo fantasiosi”.
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Sono convinto che il nobel a Ishiguro del 2017 è un monito dell’Accademia per noi comuni mortali: “Leggete i giapponesi, prima che sia troppo tardi, perché loro hanno già letto noi!”
Il romanzo di Yoko Ogawa può essere l’occasione di avvicinarsi a un mondo diverso e apprezzarlo con più consapevolezza. Può persino insegnarci l’importanza di andare piano nella vita e dare valore al nostro quotidiano. Per farlo è bene leggere L’isola dei senza memoria alla giapponese, con i tempi giusti, con una tazza di tè. Magari in giardino, un giardino zen.
Per la prima foto, copyright: Manja Benic.
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