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L’Isis e il genocidio di cui nessuno parla: gli yazidi

L’Isis e il genocidio di cui nessuno parla: gli yazidiSiamo ormai sempre più abituati a parlare dell’Isis in relazione agli attentati commessi in Occidente, tra Europa e Stati Uniti soprattutto. Eppure l’Isis è ancora attivo in Medio Oriente dove sta perpetrando quello che alcuni osservatori definiscono un vero e proprio genocidio ai danni della comunità degli yazidi.

Si tratta di una comunità che vive nelle regioni del Sinjar iracheno e che conta circa due milioni di membri, ai danni dei quali l’Isis ha messo in piedi una vera e propria persecuzione di messa, con il rapimento di donne e bambine e la loro compravendita come schiave, oltre che con l’uccisone di gran parte della popolazione.

A parlarne è Simone Zoppellaro che con Il genocidio degli yazidi (Guerini e Associati Editore) ha parlato per la prima volta in Italia di quanto sta succedendo a questa comunità.

Abbiamo rivolto qualche domanda a Simone Zoppellaro per capire più da vicino la dura realtà che ci racconta.

 

Sul disegno politico dell’Isis si è detto davvero molto, ma in che modo una comunità come quella degli yazidi può rappresentare un ostacolo per tale disegno?

Gli yazidi – una comunità esigua numericamente, povera e senza alcun supporto esterno da parte dei grandi attori internazionali – non rappresentano in alcun modo un ostacolo per i progetti dei miliziani dell’Isis, se non nella misura in cui questi, facendo parte di una religione altra dall’Islam, non sono ritenuti integrabili in un’entità statale basata su versione sclerotizzata e estrema della religione musulmana. La loro persecuzione – apertamente rivendicata anche nei canali mediatici dell’Isis – è giustificata in primo luogo da ragioni di propaganda, nonché dal rapimento di migliaia di donne e ragazze, vendute e utilizzate come schiave. Allo stesso modo, anche molti bambini yazidi, strappati dalla loro terra e dalle loro famiglie, sono stati addestrati e persino usati in missioni suicide. Il punto vero comunque, a mio avviso, è che i miliziani dell’Isis hanno bisogno di nemici ben identificabili e riconoscibili per giustificare il loro ricorso sistematico alla violenza, che è parte fondamentale della loro identità di gruppo.

 

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Nell’introduzione al libro, lei evidenzia come il genocidio degli yazidi sia avvenuto grazie alla collaborazione o all’indifferenza di parte della popolazione del Kurdistan iracheno. Come si può spiegare? È solo la conseguenza di una mancata integrazione oppure c’è qualcosa di più specifico?

Più che dei curdi iracheni, è importante sottolineare il ruolo di una parte importante della popolazione araba e sunnita del Sinjar, la regione che fu teatro del genocidio a partire dall’agosto 2014. L’avanzata dell’Isis ha dato occasione a molti di loro di riversare le loro frustrazioni e il loro odio sui vicini, approfittandone per sottrarre case e beni. La minoranza sunnita, dopo la caduta del dittatore Saddam Hussein, si è trovata stretta fra le autorità curde e una Baghdad sempre più a marca sciita, con il risultato che una parte significativa di loro ha finito per supportare le istanze estreme di gruppi come l’Isis, nella speranza di ottenere una rivalsa sociale e politica. Ma è anche vero che molti degli yazidi che ho incontrato hanno dimostrato una grande sfiducia pure nelle autorità curde, e questo per il fatto – dicono – che non sono stati in grado di difenderli dall’avanzata dell’Isis. Importante altresì il ruolo dei curdi siriani, il cui intervento è stato fondamentale per rompere l’assedio del monte Sinjar, ponendo fine alla pagina più drammatica di questo genocidio.

 

Del popolo yazida si sa poco anche in Italia. Possiamo provare a dare qualche coordinata ai nostri lettori dal punto di vista storico-politico?

Si tratta di una minoranza religiosa millenaria, un sincretismo su base monoteista che riflette e rielabora in modo originale temi e motivi già presenti in quel milieu multi-religioso che è da sempre il Kurdistan iracheno. Gli storici fanno risalire la loro genesi di gruppo alla predicazione di Sheikh Adi, un mistico sufi musulmano, nell’XI secolo. Dopo la morte del maestro, i suoi seguaci finiranno per allontanarsi sempre di più dall’Islam, fino a definire una religione completamente autonoma, che vanta anche dei propri testi sacri. Per questa ragione, la storia degli yazidi è stata segnata per secoli da persecuzioni e tentativi di conversione. Ma gli yazidi, sempre più isolati, sono riusciti a mantenere e tramandare fino a oggi il loro patrimonio culturale e spirituale. Questo, inevitabilmente, ha prodotto però una chiusura della comunità verso l’esterno, il che si è rivelata un’arma a doppio taglio, come si è visto anche di recente.

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Perché secondo lei ancora oggi, con un genocidio in corso, la comunità internazionale non solo non interviene con durezza, ma addirittura sembra tacere? Quali sono gli equilibri in gioco?

Ammettere che si tratti di un genocidio significherebbe innanzitutto dover fornire assistenza e supporto a centinaia di migliaia di profughi e sfollati yazidi. Cosa, questa, certo non gradita dalle cancellerie internazionali negli anni in cui la crisi dei rifugiati è stata al centro di un feroce dibattito in Europa, e non solo. Significherebbe poi dover indagare sui mandanti e gli esecutori di questi crimini, con il rischio di aprire un vaso di Pandora che potrebbe, secondo alcuni, destabilizzare i già fragili equilibri dell’Iraq contemporaneo, che è stato di recente sull’orlo dell’implosione.

 

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Al momento gli yazidi stanno provando a liberare le donne e gli uomini ancora prigionieri pagando ingenti riscatti. Lei racconta la terribile storia di Sawsan, liberata dalla schiavitù con un pagamento di 10 mila dollari, e non esita a parlare di debiti contratti dalla popolazione yazida e che ancora devono essere pagati. Debiti verso chi? O detto più brutalmente: chi sta speculando, oltre all’Isis? È possibile avere un quadro chiaro di questi aspetti?

Stando a quanto riportatomi da Yazda, la maggiore organizzazione yazida presente in Iraq e in molti altri Paesi, ci sarebbero prove che alcune di queste ragazze siano state vendute nei Paesi del Golfo, e non solo. L’Isis ha poi goduto dell’appoggio esterno, diretto o indiretto, di vari Paesi della regione, dall’Arabia Saudita alla Turchia, secondo quanto riportano i massimi esperti. Riguardo al caso specifico dei riscatti, esiste una serie di figure, interne alla comunità yazida, che si adoperano per liberarle, spesso rischiando la vita. Ex-contrabbandieri e piccoli commercianti che hanno i loro contatti sul territorio. Questo grazie anche al fatto che all’interno dei ranghi dell’Isis esistono personaggi che si adoperano, previo pagamento di somme davvero alte, per liberare queste ragazze. Si tratta di famiglie estremamente allargate, e per quanto ci è dato capire, i soldi vengono raccolti dove e se possibile all’interno dell’ambito familiare e di comunità.

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Altra fonte di denaro per l’Isis, oltre al pagamento del riscatto, è la compravendita delle donne yazide come schiave. In questo caso, il passaggio è tutto interno all’Isis, oppure è possibile riscontrare il coinvolgimento di terze parti e dunque un ulteriore sovvenzionamento esterno dell’Isis?

Gli yazidi, come detto, parlano della compravendita come di un fenomeno che ha ramificazioni internazionali, nei confronti soprattutto di altri Paesi arabi, ma mancano ancora le prove per poterlo affermare con esattezza.

 

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Lei fa notare come quello attuale non sia il primo genocidio subito dagli yazidi, la cui storia è fatta di molte persecuzioni nei secoli. Cosa lo rende genocidio diverso da quelli precedenti? Esistono cioè delle caratteristiche e delle ragioni peculiari?

La differenza fra questo genocidio e i massacri del passato è la sistematicità e la rapidità con il quale è stato portato avanti. In epoca ottomana o ancora sotto Saddam, si trattava soprattutto di tentativi di estirpare la religione e la cultura degli yazidi, ma un attacco così feroce, e rivendicato apertamente, uno sterminio di tali proporzioni, può essere concepibile solo in un contesto ideologico e bellico come quello attuale. La chiave è la sua paradossale modernità, e dico paradossale perché siamo abituati a definire gruppi come l’Isis, sbagliando, in termini di opposizione alla modernità. Ma è un errore: lo sterminio degli yazidi sarebbe inconcepibile senza un’ideologia ben precisa, che è figlia tanto di una versione modernizzante e atipica dell’Islam, quanto dell’esperienza del totalitarismo.

L’Isis e il genocidio di cui nessuno parla: gli yazidi

Che ruolo occupa la religione? Può essere considerata la causa scatenante oppure è solo un pretesto?

Un ruolo importante, almeno nelle giustificazioni esplicite fornite dall’Isis. Abbiamo già ricordato come il pregiudizio e le persecuzioni nei confronti degli yazidi, chiamati erroneamente “gli adoratori del diavolo”, abbiano radici lontane. L’Isis ha giocato su questo, facendone un elemento a uso e consumo della sua propaganda. Un elemento fondamentale in un contesto militarizzato dove la violenza sacra è un nodo che fortifica e raccoglie all’appello combattenti e mercenari da tutto il mondo, e non solo dal Medio Oriente. Senza nemici interni ed esterni ben identificabili, e facilmente sacrificabili, un gruppo come l’Isis non potrebbe mai esistere.


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