“L’inverno del pesco in fiore”, intervista a Marco Milani
L’inverno del pesco in fiore di Marco Milani, scrittore, medievalista e appassionato rugbista, è un potente romanzo storico pubblicato oggi da Piemme.
Siamo nel 1900, a Pechino. La fotografia che stringe tra le mani è tutto ciò che lo lega alla sua vita precedente, tutto ciò per cui vale la pena lottare in quel momento, circondato, insieme alle altre truppe europee, dai Boxer cinesi in rivolta. È la fotografia della sua famiglia, che lo ritrae insieme agli altri componenti attorno al patriarca, Filiberto Bondoli. Al suo ritorno dal fronte, a Ernesto, spetterà l’eredità, ma prima di poter essere degno di tale ruolo deve diventare un uomo, secondo il nonno. E nulla più della guerra può assolvere a quel compito.
Ma Ernesto non torna dalla Cina, l’unica cosa di lui che rivedrà l’Italia sarà quella fotografia che l’ha rasserenato nelle interminabili notti cinesi, insonne per l’ansia e la paura di morire. È il suo compagno Mario a riportare la fotografia a casa Bondoli. Un po’ per il legame che nei mesi di guerra ha instaurato con quel giovane gentile e un po’ per un volto del ritratto di famiglia, una donna che si è impossessata dei suoi sogni e che vuole rivedere.
Al suo arrivo a Ladispoli, Mario troverà in parte ciò che cerca da sempre, una famiglia, radici forti, una casa le cui fondamenta risalgono al passato e che nulla può far crollare. Una donna da amare, anche se solo da lontano, per tutta la vita. Ma troverà anche segreti celati e difesi col sangue e capirà che la fotografia da cui tutto è cominciato nasconde un universo intero.
Un romanzo sui legami che tracciano solchi profondi nelle nostre vene fino a diventare parte di noi, una saga familiare, potente e delicata, che copre tutto il Secolo breve della storia italiana. Ne parliamo in questa intervista a Marco Milani.
Come ha deciso di scrivere un romanzo storico? Ha contato di più l’essere un medievalista o l’amore per Ladispoli, la sua città, dove è ambientata la maggior parte delle vicende narrate in L’inverno del pesco in fiore?
Sicuramente ha influito di più l’amore per la storia, in generale, che è sempre stata una mia grande passione; la scelta di Ladispoli è stata successiva, quando dalla Cina gli eventi si sono spostati in Italia. La scelta è caduta naturalmente su Ladispoli, la cui storia è affascinante e che conoscevo abbastanza bene, vivendoci dal 1973. Alle mie conoscenze ho aggiunto una ricerca approfondita sui testi in circolazione, scoprendo alcune cose davvero interessanti che ignoravo.
Per scrivere questo romanzo ho impiegato quasi tre anni e l’esperienza di storico mi ha sicuramente aiutato nella ricerca delle fonti e nell’approfondimento dei temi trattati. È stato avvincente immergermi nei fatti e nella vita quotidiana del secolo scorso e per fare ciò, per mesi, ho letto i giornali di allora come fossero quelli di oggi, ogni giorno, facendo mie le atmosfere d’inizio secolo, dalle pubblicità ai trafiletti di cronaca. Quando ho descritto il primo giro d’Italia automobilistico, ad esempio, mi è sembrato di essere lì, sul ciglio dell’Aurelia, mentre al passaggio delle auto si alzavano nuvoloni di polvere tali da oscurare il sole.
Nel romanzo scorrono cent’anni di storia italiana, partendo da un episodio poco conosciuto, la partecipazione di un piccolo contingente italiano alla spedizione in Cina che domò la rivolta dei Boxer. Perché ha scelto proprio quel momento come punto di partenza?
Mi serviva un evento poco conosciuto ma di grande impatto e senza dubbio la rivolta dei Boxer in Cina faceva al caso mio. Ciò per due motivi. Il primo era l’aspetto socio antropologico ovvero la rivolta popolare, in un paese tanto lontano e diverso, che tanto diversa poi non era da quelle che conosciamo noi. In fondo i Boxer lottavano contro la povertà, lo sfruttamento delle potenze straniere, il dominio dei ricchi sui diseredati … non mi sembra che le cose siano cambiate granché oggi.
Il secondo motivo era il coraggio e il senso del dovere di quel manipolo di eroi che difese la legazione Italiana a Pechino e la Cattedrale di PeTang. Far nascere, nel contesto drammatico e disperato di tale impresa un’amicizia fraterna, bellissima, limpida mi affascinava molto e così è stato.
In ogni parte del mondo, per quanto gli uomini siano diversi per colore, razza, taglio degli occhi, restano sempre uomini. La prima parte del romanzo è ambientata in Cina e «in fondo, quel cielo di Cina, non era poi così diverso da quello dell’antica Etruria».
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Un altro aspetto interessante del romanzo è il passo dedicato alla politica economica della Repubblica di Salò, un esperimento sociale rimasto di fatto sulla carta per la brevità di quel governo. Come mai ha scelto di metterla in evidenza? Pensa che, depurato dall’ideologia, potesse comunque contenere dei suggerimenti validi per l’economia del dopoguerra?
La Socializzazione mi ha sempre affascinato e, da storico, ho voluto approfondirla, senza pregiudizi né ideologie. Per fare ciò ho dovuto ideare un personaggio che ne fosse innamorato, Ernestino, e che mi permettesse di sviscerare molti aspetti altrimenti difficili da esplorare. Nelle vicende narrate non vi è nulla di ideologico o di demonizzante, come dovrebbe sempre essere da parte di uno storico, ma il semplice racconto, romanzato, fatto in base alle fonti.
Molti giovani aderirono alla Repubblica di Salò, molti altri si schierarono contro. Ad ognuno le proprie idee, ma il semplice raccontare ciò non deve creare disappunto. Anche oggi, se lasciassimo da parte il proprio tornaconto e cercassimo di capire meglio le cose avremmo molti meno problemi.
La Socializzazione conteneva suggerimenti validi per l’economia del dopoguerra? Bé, nel dopoguerra abbiamo assistito al grande scontro tra i due massimi sistemi, capitalismo e comunismo, conclusosi con la vittoria del primo. Oggi viviamo in una società consumistica e globalizzata perché il capitalismo è tutto ciò e quindi i dettami della Socializzazione sarebbero come fumo negli occhi. Storsero il naso persino i tedeschi quando Mussolini la attuò.
Ancora una volta lo storico che è in me m’impone di storicizzare, di contestualizzare: la Socializzazione fu figlia del suo tempo e non ebbe compimento. Pensare o scrivere di cosa sarebbe potuto succedere se si fosse imposta esula dai miei progetti.
Nel corso della lunga saga familiare della famiglia Bondoli, compaiono un paio di episodi dal tono quasi fiabesco, che esulano dal realismo perfetto della storia. Come mai questa scelta?
Io vivo di fantasia, me ne nutro quotidianamente, fa parte della vita di tutti noi e non posso farne a meno. Ma non si è trattato solo di un mio bisogno personale.
In tutte le comunità, da quelle nazionali a quelle più piccole, locali, l’aspetto leggendario, fantastico ha sempre avuto una grande importanza. Non esiste popolo che non abbia le proprie tradizioni popolari, i propri mostri, i propri eroi da raccontare. Il popolo ha bisogno di credere in qualcosa di metafisico, di salvifico, come la storia dell’uomo ci insegna.
Quando arrivai a Ladispoli, imparai immediatamente le leggende del posto, i luoghi misteriosi dai quali noi bambini giravamo al largo, i personaggi dall’oscuro passato ammantati di un’aura arcana e credo che ognuno di noi abbia vissuto la stessa cosa. L’uomo è anche sogno, non è solo carne. E forse è la risorsa più grande che oggi abbiamo per poter cambiare le cose, per crescere, per renderci conto che possiamo essere migliori.
Quale è stata la difficoltà maggiore che ha incontrato nel raccontare una storia complessa, in cui compaiono e scompaiono molti personaggi, più o meno importanti ai fini dell’intreccio? L’importanza da dare a ognuno di loro era già definita all’inizio oppure le è capitato di modificarla nella fase di scrittura?
Non vorrei sembrare presuntuoso, perché non lo sono, ma di difficoltà ne ho incontrate poche. La storia ha preso a scorrere da sola, come se i personaggi sapessero già cosa fare. Sin dall’inizio ognuno di loro era consapevole del proprio ruolo ed ha recitato la propria parte con diligenza.
Naturalmente alcuni di loro hanno avuto un’importanza superiore nel contesto narrativo mentre altri hanno assunto spessore man mano che la storia procedeva. In tutte le rappresentazioni, ancor più in una saga familiare come quella dei Bondoli, anche le figure di minore importanza hanno avuto il loro perché. Alcuni li avevo in testa sin dall’inizio, come la dolce Amalia che fa compagnia a Ernesto nei giorni di Salò, e che è un personaggio realmente esistito col quale ho avuto l’onore e il piacere di essere amico. Per il resto mi sono lasciato andare, trovandomi spesso io a dover rincorrere i vari personaggi, perché pur avendo in mente l’epilogo della storia, su come arrivarci mi sono lasciato condurre dall’istinto. Io osservavo e scrivevo.
Di contro, in fase di revisione, ho dovuto tagliare qualcosa. Il personaggio di Francesco, l’amante respinto da Lidia, in una prima stesura lo avevo seguito sino in Sud Africa dove era fuggito, scegliendolo quale protagonista del sehnsucht, lo struggimento d’amore caro al romanticismo tedesco, ma per non distogliere troppo l’attenzione dalle vicende italiane ho dovuto ridimensionarlo. Di lui si sono perse le tracce …
Prima di questo romanzo lei ha scritto altri libri, tutti molto diversi tra loro. Quale sarà la sua prossima scelta?
Mi piace sperimentare. Ho sempre scritto per il puro piacere di farlo, senza pensare alla eventuale pubblicazione e anche perché la fantasia reclama continuamente uno sfogo, in qualunque direzione.
Il romanzo storico mi affascina perché mi permette di mettere in pratica i miei studi, la mia propensione alla ricerca, ma se proprio devo trovare un comune denominatore tra le cose che ho scritto, allora debbo dire che lo studio e l’approfondimento dell’animo umano sono forse il fil rouge del mio lavoro, sia che scriva una commedia divertente sia che si tratti di un manifesto animalista.
L’Inverno del Pesco in Fiore si apre con una citazione di William Golding, tratta da “Il Signore delle mosche”: il concetto dell’homo homini lupus mi affascina e credo sia interessante sviscerarlo in tutte le sue dinamiche.
Tutto quanto appena detto si riassume nella parola che è scritta dietro la foto: “Naturaliter”, secondo natura, e che un personaggio spiega così: «L’uomo si è sempre combattuto fin da quando è comparso sulla terra e quando non trova un nemico intorno a sé, lo va a cercare lontano; e quando non ha più nemici neanche lontano volge lo sguardo al suo fianco e il nemico lo cerca dentro casa».
Al momento sto lavorando su vari progetti, non ultima una sceneggiatura teatrale e poi ho due romanzi in cantiere e credo che nei prossimi mesi lavorerò su questi per renderli pronti al più presto. Ho già detto troppo però.
Nel frattempo continuerò a scrivere e a giocare a rugby. Di sicuro L’Inverno del Pesco in Fiore non sarà il mio ultimo libro…
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