“L’insegnante” di Michal Ben-Naftali, non la solita storia sull’Olocausto
Qualcuno potrebbe ancora chiedersi se e come possa essere attuale oggi, a oltre settant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, l’ennesimo romanzo sulla Shoah, e se ancora ci sia qualcosa da dire su quel buio periodo.
Quando si scrive questo articolo meno di un mese è passato dalla giornata della memoria e nel frattempo la Polonia ha promulgato una legge che vieta di dire che i polacchi hanno collaborato con i nazisti, suscitando clamore e disappunto; inoltre i crimini xenofobi del centro Italia occupano stabilmente le prime pagine di tutti i quotidiani del nostro Paese e ovunque ci si chiede se il pericolo di neofascismo sia reale o meno.
La risposta pare quindi essere che sì, la nostra società ha ancora bisogno di un libro che le ricordi il suo passato, e che, nonostante la gran quantità di romanzi, poesie, rappresentazioni teatrali, film e saggi sull’argomento, ancora tanto ci sia da dire sull’Olocausto prima di cadere nel manierismo.
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A un’impresa tanto difficile quanto necessaria si è votata Michal Ben-Naftali, scrittrice, editrice e traduttrice di Tel Aviv,con L’insegnante, edito da Mondadori nella traduzione di Alessandra Shomroni.
Sebbene infatti la cronaca continuamente ci ricordi come ce ne sia bisogno, raccontare l’Olocausto nel 2018 non è infatti impresa facile, e grande è il rischio di copiare più o meno bene i grandi film o libri che ne hanno precedentemente trattato (da Se questo è un uomo a Schindler’s list, passando per La vita è bella, Train de vie,Il bambino col pigiama a righe o Una luce quando è ancora notte), finendo col produrre una storia ricca di facile patetismo ma priva di una qualche profondità di riflessione.
L’autrice israeliana riesce ad aggirare questo ostacolo brillantemente, e lo fa raccontando della sua professoressa, Elsa Weiss, giovane donna ebrea ai tempi della seconda guerra mondiale, che ha girato l’Europa nella prima metà del secolo, prima di terminare il suo pellegrinaggio in Israele, dove, nell’estate del 1981 (è scritto nella prima pagina, non roviniamo il finale) si tolse la vita gettandosi dal balcone del suo appartamento.
La Ben-Naftali sveste dunque i panni dell’alunna e attraverso una lunga ricerca tenta di ricostruire i motivi che hanno spinto l’amata insegnante di inglese a farla finita. Inizia in tal maniera un viaggio a ritroso che, partendo dalla cittadina allora ungherese di Kolosvàr (oggi Cluj-Napoca, in Romania) dove la piccola Elsa viveva col fratello Jan e i genitori Samuel e Leah, arriva sino alla terra promessa, passando per Parigi, la Svizzera e il campo di concentramento di Bergen-Belsen.
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L’aver evitato il rischio di cadere nel melodrammatico è la forza di questo scritto, e ciò è stato raggiunto grazie all’estrema abilità della scrittrice, che non si sofferma su facili patetismi, portando invece agli estremi un’analisi psicologica fine e penetrante, che permea ogni pagina. Sin dalle pagine iniziali, in cui è descritta Elsa Weiss ai tempi in cui insegnava, infatti, la lente di ingrandimento della Ben-Naftali è in grado di dare vivezza e spessore a tutti i dettagli, di far risaltare episodi marginali e ignorare invece ciò che parrebbe più importante, restando sempre fedele al quadro psicologico che l’autrice ha fatto del suo personaggio.
Tale meccanismo raggiunge poi il suo acme nel racconto della vita di Elsa, dall’infanzia sino al suo arrivo in Israele, dove l’autrice riesce a dare profondità umana a ogni pagina, trasmettendo quasi l’impressione, in molti punti, di essere stata la prima a cogliere certi impalpabili movimenti dell’animo, certi pensieri celati ed emozioni provate dagli ebrei in quegli anni in cui il terrore si unì, per molti degli sfortunati protagonisti, a uno schiacciante senso di impotenza.
Così un libro che alle prime pagine pareva di testimonianza, si trasforma rapidamente in un romanzo psicologico in cui una tensione sempre alta e un’incredibile capacità di immedesimarsi (e fare immedesima il lettore) con la protagonista, dona nuovo spessore al dramma dell’Olocausto.
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L’insegnante è quindi più che un libro sulla Shoah, un romanzo psicologico ambientato durante la seconda guerra mondiale. Merito dell’autrice è essere riuscita a dare un volto, un’anima alla tragedia dei campi di concentramento, ricostruendo un dramma personale nel Dramma storico e sociale (come ne La storia di Elsa Morante, per citare un'altra pietra miliare della letteratura sulla seconda guerra mondiale). In altre parole, con una freschezza tutta nuova, la Ben-Naftali ha ricordato (o insegnato?) a tutti i suoi lettori che, a differenza di quanto dice la famosa frase attribuita a Stalin secondo cui «una morte è una tragedia, un milione di morti è statistica», la morte di un milione di persone non è statistica, ma un milione di singole tragedie.
Tutto questo senza facili patetismi o quella stanca retorica che porterebbe a definirlo “l’ennesimo libro sull’Olocausto”. Sebbene oggi, è importante ribadirlo, anche semplicemente di un “ennesimo libro sull’Olocausto” abbiamo estremo bisogno.
Per la prima foto, copyright: Josh Adamski.
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