L’incantesimo di Dante. Il Canto XXXII dell’Inferno
Ché gran disio mi stringe di savere
Se ‘l ciel li addolcia o lo ‘nferno li attosca
(If., canto VI, vv. 83-84)
Un trait-d’union che unisce le tre Cantiche della Commedia è certamente la passione di Dante per la politica, le vicende interne alla sua Firenze, di cui è stato anche protagonista, quando venne nominato priore. Nel Canto VI dell’Inferno si premura di chiedere al concittadino Ciacco,punito tra i golosi, un parere sulla situazione di Firenze, che il dannato gli profetizza ormai prossima alla guerra civile tra guelfi bianchi e neri. Non solo: Dante vuole sapere dove incontrerà i fiorentini del passato, quelli di cui conosce e ammira le gesta. La risposta di Ciacco lo spiazza: «Ei son tra le anime più nere». E infatti troverà, scendendo sempre di più nel “doloroso ospizio”, Farinata degli Uberti, a lui “avverso” perché ghibellino, ma che sempre si è distinto come difensore di Firenze: ancora adesso, nonostante sia intrappolato in un sepolcro infuocato, si rende assoluto protagonista del canto X; il maestro di lettere Brunetto Latini, tra i sodomiti, che incoraggia il suo allievo con affetto: «se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto» (If., canto XV, vv. 55-56). Va detto che Dante non incontra solo fiorentini celebri: c’è spazio anche per un anonimo suicida del quale ha molta compassione, ricomponendo ai piedi dell’albero nel quale è trasformato alcuni rami che gli sono stati strappati. Va menzionato anche Mosca dei Lamberti, che Dante era ansioso di incontrare. L’uomo è punito tra i fomentatori di scismi, poiché fu proprio lui l’iniziatore degli scontri che hanno portato alla guerra civile. Vale la pena riportare i pochi versi con i quali sembra rivolgere un avvertimento a Dante:
Ricordera’ti anche del Mosca,
che disse, lasso! “Capo ha cosa fatta”,
che fu mal seme per la gente tosca.
(If., Canto XXVIII, vv. 106-108)
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In tutte le occasioni già citate, però, Dante è sempre consigliato e talvolta spinto da Virgilio, il suo “duca”, a interagire con i dannati. In questo senso, il canto XXXII dell’Inferno rappresenta una vera e propria anomalia. Ci troviamo nel IX cerchio, verso l’uscita del “tristo buco”, dove è punito il peccato più grave: il tradimento. L’elemento dominante è ilghiaccio, del quale il Cocito, il lago infernale, è interamente ricoperto. Sono le enormi ali di Lucifero, incastrato nel centro della terra, che con il loro movimento creano un vento gelido. Il canto XXXII, normalmente, non si studia a scuola, e in generale tende a sfuggire al lettore perché risulta “schiacciato” dal successivo, dove è protagonista il conte Ugolino, uno dei personaggi più carismatici di tutta la Commedia. Ma, come dicevo, merita un approfondimento in particolare perché assistiamo a un profondo cambiamento nell’animo di Dante personaggio. Accade quando i due poeti, sorpassata la Caina, la zona nella quale sono immersi i traditori dei parenti, si avviano verso la seconda, cioè l’Antenora, dove sono puniti coloro che hanno tradito la propria patria. Qui Dante, “per caso o per volere del destino” inciampa nella testa di un dannato:
Passeggiando tra le teste,
forte percossi ‘l piè nel viso ad una
(If., canto XXXII, vv. 77-78)
Il dannato si lamenta ad alta voce, e dà un indizio sulla sua identità che mette Dante sull’avviso:
Piangendo mi sgridò: “Perché mi peste?
Se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?”
(If., canto XXXII, vv. 79-81)
Dante aveva già dialogato con Farinata riguardo questa battaglia, avvenuta prima della sua nascita, nel 1260: Firenze contro Siena. Vinse quest’ultima, grazie soprattutto a un fiorentino che tradì i suoi concittadini guelfi. Dante è cresciuto con quel ricordo, e vuole saperne di più:
E io: “Maestro mio, or qui m’aspetta,
sì ch’io esca d’un dubbio per costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta.”
(If., canto XXXIII, vv. 97-81)
Si rivolge dunque al dannato, chiedendogli il suo nome e contando sul fatto che anche lui, come tutti gli altri, rimpianga la vita terrena e che desideri portare notizie di sé sulla Terra. Ma il dannato lo caccia via in malo modo, consapevole che nessuno vuole avere sue notizie, e anzi vorrebbe essere dimenticato:
Ed elli a me: “Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna […]”
(If., canto XXXII, vv. 94-95)
A questo punto il pacato, timoroso e facile alle lacrime Dante ci stupisce ancora: afferra il dannato per “la cuticagna”, cioè per la nuca, e lo esorta ancora a dirgli la sua identità, senza successo. Ma succede qualcosa: un altro dannato, che non ne può più di sopportare le grida del suo vicino, prontamente lo denuncia (verrebbe da dire: lo tradisce, dato il luogo), a testimonianza che l’Inferno, in fondo, non è altro che un condominio dove si è pronti a denunciare il vicino rumoroso all’amministratore:
«Che hai tu Bocca?
Non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri?qual diavol ti tocca?»
(If. Canto XXXII, vv. 106-108)
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Non ci sono più dubbi: il dannato è Bocca degli Abati, colui che tradì Firenze, rischiando di portarla alla distruzione. Dante è disgustato e molla la presa, maledicendo il suo tradimento. Va sottolineato, però, che non c’è alcuna nota della colpevolezza di Bocca nelle cronache e negli editti dell’epoca: risulta solo che fu esiliato, una pena che sembra un po’ troppo leggera per un traditore.
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Stessa cosa, in realtà, vale per Pier Delle Vigne, protagonista del canto XIII, ambientato nella selva dei suicidi: è certo che fu imprigionato con l’accusa di aver tradito il suo re, Federico II. Dante ha un grande simpatia e compassione per lui, infatti ce lo mostra innocente, vittima di un’accusa ingiusta, che ancora ricorda con affetto e ammirazione il suo re, colpevole solamente di essersi suicidato. Il primo contatto tra loro è molto simile, per certi versi, a quello con Bocca degli Abati. In entrambi i casi, il pellegrino “ferisce” i due dannati: si è già detto che inciampa nella testa del traditore; nel secondo caso, spinto da Virgilio, spezza un ramo dell’albero nel quale è trasformato Pier delle Vigne, dal quale escono sangue e parole amare: «Perché mi schiante?» si lamenta, dispiaciuto. Sulla sua effettiva innocenza, in realtà, non c’è chiara certezza: ma Dante lo reputava una vittima (come lui, del resto) dei giochi di potere della corte, ne prova compassione e dunque ogni lettore, a cavallo dei secoli, lo ha reputato tale: così come ci commuoviamo per l’amore infelice di Francesca, per il conte Ugolino costretto ad assistere impotente alla morte dei suoi figli; così come ammiriamo Farinata e il suo animo ancora ribelle. È Dante che plasma le nostre emozioni, perché in fondo il suo desiderio principale è che noi proviamo le sue, che indossiamo un mantello rosso e ci perdiamo nella selva oscura, pronti a riempirci di fuliggine per poi tornare a riveder le stelle.
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