L’impermanenza di tutte le cose. “Gli inconvenienti della vita” di Peter Cameron
È uscito per Adelphi l’ultimo libro dello statunitense Peter Cameron, amatissimo in Italia, Gli inconvenienti della vita, traduzione di G. Oneto, incentrato sul paradosso del divenire delle umane relazioni, confermando la filosofia dello scrittore che ruota intorno all’impermanenza di tutte le cose. Due novelle o romanzi brevi, vista la densità della scrittura e la fine disamina psicologica, compongono l’opera, accolta molto favorevolmente da lettori e critica: La fine della mia vita a New York e Dopo l’inondazione. Ambientazione certo differente, ma analogia della struttura narrativa e condivisione della medesima percezione e interpretazione della vita.
Impermanenza di tutte le cose, dicevo, sì, perché i protagonisti dell’opera vivono le loro relazioni sentimentali in un equilibrio assolutamente precario, ammantato di placida convivenza, se non di ipocrisia, che comunque garantisce un’apparente soddisfazione del quotidiano.
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Il rapporto della coppia gay, costituita da uno scrittore in crisi, Theo, e da un avvocato in carriera, Stefano, protagonisti del primo romanzo breve, si trascina ai bordi dell’abisso, finché non sopraggiunge l’imprevedibile a scombinare le carte. L’incidente stradale di Theo, in stato di ubriachezza, ribalta la situazione e fa precipitare la coppia in uno stato di prostrazione psicologica, che interessa soprattutto lo scrittore, ma rivela l’avvocato incapace di fronteggiare la situazione. «Racconto le storie prima che vadano in frantumi», dichiara Cameron; questo è di palmare evidenza: lo scrittore fa appena in tempo a narrare prima dell’irreversibile precipizio. Nietzschianamente scava dentro l’io dei protagonisti, in un indefesso montare e smontare le tessere del puzzle, finché il gioco non si rompe definitivamente, mentre non soccorre l’arte cinese di ricostruzione dei cocci. Theo ha la netta percezione di essere diventato un piatto rotto; l’inconveniente drammatico dell’incidente, in cui muore una persona accorsa a soccorrerlo, lo dilania nella sua struttura di personalità già border, e a nulla giova il percorso analitico avviato da tempo e poi abbandonato, in quanto lo pone in modo troppo frontale a confronto con aspetti di sé inaccettabili. L’abbrivio del romanzo, in cui Theo ritorna a casa dopo una cena da amici, mentre Stefano legge a letto, già ci pone di fronte alla realtà delle cose: i protagonisti sono distanti tra loro e stancamente convivono, sebbene li unisca l’attrazione fisica che sopraggiunge come una catarsi della loro incomunicabilità. I cavalli, sono come gli uomini, si legge nella citazione iniziale: preferiscono apparire alla vita, nonostante gli inconvenienti che questa presenta. Quindi, vale la pena vivere aspettando che si presenti una seconda occasione, piuttosto che non essere mai venuti fuori da quel nulla nel quale precipiteremo dopo la morte.
L’esistenza dei protagonisti emerge attraverso dialoghi, che sono anche silenzi, minimalisti, incentrati sulla banalità del quotidiano:
«Cos’hai rotto» chiese Stefano.
«Come?».
«Si è rotto qualcosa? Ho sentito il rumore».
«Ah, sì, un piatto, mi pare». «Ti pare?». «No. Cioè sì, un piatto. È caduto dal ripiano della cucina. Non facevo molta attenzione, è come se fosse caduto da solo».
Non era una novità: Theo fingeva di vivere in un mondo in cui le leggi generali della fisica non esistevano, oppure lo sorprendevano di continuo.
«Non capisco».
«Già, neanch’io».
Theo cominciò a svestirsi.
Stefano lo osservava. «Com’è andata?» chiese.
Theo si sentì addosso il suo sguardo.
«Piuttosto squallido». «Piuttosto squallido» era una delle definizioni che usavano sempre fra di loro. Le altre erano «passabile» (carpito da una cena con i genitori di Stefano durante la quale suo padre, dopo aver assaggiato il vino, aveva sentenziato che era «passabile») e «stomachevole».
«Paula era ubriaca?» chiese Stefano.
«Naturale, lo erano tutti».
«Tutti?». «Tutti tranne me» disse Theo. «La tua serata com’è andata?».
Come si sarà avveduto il lettore, la conversazione tra i due protagonisti allontana più di quanto non avvicini e scava un limite di incomunicabilità tragicamente pirandelliana, dove entrano a confronto mondi ormai distanti, individui che galleggiano come isole nella loro solitudine.
Per quanto il contesto sia diverso, analoga riflessione vale per il secondo romanzo breve, Dopo l’inondazione. Coppia matura eterosessuale, che non ha mai superato il lutto per la perdita della figlia, un inconveniente irrimediabile che ha acuito la crisi latente; ambientazione in una piccola cittadina americana, dove si professa la religione metodista, in cui la vita è ripetitiva e monotòno, scandita dai rituali religiosi. Dopo un’ennesima esondazione del fiume con conseguente inondazione, la famiglia degli Escobedo viene accolta ob tortissimo collo dalla coppia, per sollecitazione insistente del reverendo Judy, una donna che guida in modo autocratico la chiesa, ripetendo fino all’ossessione che occorre portare a compimento la volontà divina. Ebbene, la nuova famiglia smonterà, in questa convivenza forzata, le già fragili sicurezze della coppia, che rinnegherà la religione e toglierà il velo di Maya, dietro il quale si nascondeva tutta la sua ipocrita finzione di vita, sempre sull’orlo dell’abisso, da cui la teneva lontana il rituale di un quotidiano convenzionale. L’aspetto diegetico, che si declina in forma prevalentemente dialogica, riconferma l’abilità della penna di Cameron che ha toccato i vertici con Andorra, ma che non ha perso lo smalto anche in questa fatica letteraria, per la prepotente abilità a rendere, attraverso uno stile scarno ed essenziale, secondo la tecnica della sottrazione, l’inquietudine, il dolore, il male di vivere di individui che, pur in coppia, sono blindati nella loro solitudine e si acconciano a vivere un quotidiano insoddisfacente, fino al tracollo finale e alla necessità di una svolta. L’interrogativo sotteso è: perché avere paura del cambiamento se questo è strutturale della vita stessa? Mi sembra di poter dire che Cameron produce in narrativa lo stesso effetto della lettura di Nietzsche, laddove prende a martellate le convenzioni sociali, facendo emergere dal grido di dolore umano la ribellione e la riscossa, attraverso un ridestarsi della coscienza vigile.
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L’essenzialità dello stile credo sia il punto di forza di Cameron, che si concentra drammaticamente a rappresentare, con poche pennellate, in racconti brevi, il dramma e la necessità della scelta di essere uomini, pur nella impermanenza di tutte le cose.
Per la prima foto, copyright: Toa Heftiba su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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